Non c'è trattato o saggio teorico, remoto o recente, sul linguaggio teatrale in cui il monologo non sia definito in realzione al dialogo e non sia giudicato, rispetto a questo, in modo più o meno accentuato, una forma impura, inverosimile, o addirittura incompiuta, cui affidare solo alcune ristrette funzioni. D'altra parte non c'è epoca in cui il monologo non abbia intrigato i drammaturghi, attirato gli attori, appassionato il pubblico e goduto di spazi che oggi sembrano addirittura allargarsi. La storia di queste due modalità, il dialogo e il monologo, perennemente opposte, si intreccia con la storia stessa dell'evoluzione dell'arte drammatica. È soprattutto in Francia nel Seicento – epoca del trionfo dell'arte della conversazione – che il dibattito sull'opposizione fra dialogo e monologo si fa intenso e spinge i drammaturghi a sperimentare e a superare i confini fra le diverse forme del discorso teatrale. Jean Racine è indubbiamente il drammaturgo che più di ogni altro ha saputo sfruttare le potenzialità del monologo e rappresentare, atttraverso questa modalità, l'interiorità lacerata, il flusso e riflusso delle emozioni, ma soprattutto mettere in scena la frammentazione del discorso, lo sfibramento della parola, l'emergere del silenzio, del tacere e del taciuto illustrando una parola paradossale, impreziosita con i più bei fiori dell'eloquenza per raccontare la tragica impossibilità di dire.
Antonietta Sanna insegna letteratura francese all'Università di Pisa. Si occupa di questioni di genetica testuale e di rapporti fra testo e immagine nella creazione letteraria. È autrice di numerosi saggi dedicati all'opera di Paul Valéry, di Alfred de Vigny e Jean Racine, con un interesse particolare per la commistioni di generi. Ha tradotto Dumas, Céline, Semprun, Cormann, Metz. È membro dell'Institut des Textes et Manuscrits Modernes, del CNRS di Parigi, e collabora all'edizione critica dei Chaiers di Paul Valéry.