Il Manoscritto di un prigioniero di Carlo Bini (1806-1842) appartiene alla letteratura meno nota della prima metà dell’Ottocento italiano e merita di essere proposto all’attenzione del lettore odierno per molti motivi: in primo luogo per la straordinaria modernità proteiforme del testo, che si sottrae ad una stretta identificazione di genere, oscillando tra il romanzo, l’autobiografia, il trattato politico e il dialogo drammatico. Come tale è un’opera rivoluzionaria per l’epoca, e lo è anche, in secondo luogo, per i contenuti, giacché sostiene una proposta politica egualitaria, fondata sulla rivendicazione dei diritti dei poveri.
Quella di Bini è una proposta che si colloca al di là della posizione non solo dei pensatori retrivi dell’epoca, ma anche degli spiriti aperti, ivi compreso Mazzini, per l’adesione alla cui setta egli scontò nel 1833 a Portoferraio il carcere nel quale nacque proprio il Manoscritto. Questo dunque è anche un libro di speranza e di progetto, che, nel clima della Restaurazione, nasce sullo sfondo della città «libera» e aperta di Livorno, quasi in opposizione alla disperazione proveniente per Leopardi dalla staticità della società di Recanati.