A cura e con un saggio di Stefano Besoli
Presentazione di Marina Manotta
Il volume di Max Scheler, Metodo trascendentale e metodo psicologico (1900) – qui presentato per la prima volta in traduzione italiana – è lo scritto di abilitazione di colui che, nel giro di pochi anni, si sarebbe imposto come uno dei filosofi più originali del Novecento, artefice di una particolare declinazione della fenomenologia, ispiratore dell’antropologia filosofica e fondatore dell’«etica materiale dei valori». In questo saggio, Scheler – prima che la sua riflessione risentisse delle influenze derivanti dalle Ricerche logiche di Husserl – sviluppa un’indagine approfondita sul metodo filosofico e sul problema del metodo come questione fondamentale di tutta la filosofia, attuando una critica rigorosa delle due concezioni metodiche che all’epoca apparivano ancora come egemoni: il logicismo trascendentalista d’ispirazione kantiana e lo psicologismo di matrice empirista.
Nella convinzione che, a dispetto della legge di gravitazione, «in filosofia la costruzione cominci dal tetto», Scheler perviene a configurare un terzo metodo, chiamato «noologico», in grado di superare l’opposizione tra quello trascendentale e quello psicologico mediante il richiamo al principio superiore di una vita spirituale, in cui si realizza l’unione di realtà psichica e pretesa logica di validità. Al di là dell’efficacia della proposta noologica, lo scritto sul metodo costituisce una tappa significativa nel percorso teoretico scheleriano, caratterizzato anche negli anni immediatamente successivi da un peculiare orientamento neokantiano, e rappresenta al contempo un contributo determinante al dibattito di fine Ottocento sullo statuto delle cosiddette «scienze dello spirito», sulle forme di cultura storica e sui tratti incipienti di una «filosofia della vita», che vuole oltrepassare lo sguardo di una coscienza meramente oggettivante, per cogliere l’estrema pienezza del vivere nell’unitarietà dell’esperire stesso.
Max Scheler nacque a Monaco il 22 agosto 1874. Iniziò i suoi studi universitari a Monaco, per poi trasferirsi a Berlino e infine a Jena, dove si addottorò in filosofia nel 1897 sotto la guida di Rudolf Eucken, e dove conseguì l’abilitazione nel 1899 con una tesi dal titolo Il metodo trascendentale e il metodo psicologico, contenente un confronto critico e serrato con la scuola neokantiana. Nel 1906 trasferì la sua abilitazione a Monaco, e si accostò progressivamente alla fenomenologia di Husserl, che aveva conosciuto nel 1902. Costretto nel 1910 a lasciare l’insegnamento a Monaco in seguito a uno scandalo privato, visse tra Berlino e Gottinga lavorando come libero scrittore. Tra il 1912 e il 1916 collaborò come curatore allo «Jahrbuch für Philosophie und phänomenologische Forschung» e pubblicò una serie di scritti sulla fenomenologia della vita emotiva e sulla critica dell’uomo borghese – nonché il fondamentale lavoro di filosofia morale, Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori – grazie ai quali si impose come uno dei maggiori esponenti del movimento fenomenologico. Convertitosi al cattolicesimo nel 1916, al termine di un complesso itinerario personale, elaborò un’originale concezione della filosofia della religione in chiave fenomenologica, che trovò la più completa esposizione nell’opera del 1921, L’eterno dell’uomo. Al termine della guerra, che lo vide impegnato in missioni diplomatiche all’estero, fu chiamato alla cattedra di filosofia e sociologia dell’Università di Colonia. Negli anni successivi, contraddistinti da una profonda crisi religiosa sfociata nel rifiuto del cristianesimo, rivolse i suoi interessi verso la sociologia e l’antropologia filosofica, di cui delineò i tratti fondamentali nello scritto del 1926, La posizione dell’uomo nel cosmo. Trasferitosi nel 1928 a Francoforte sul Meno per ricoprire la cattedra di filosofia, morì d’infarto il 19 maggio dello stesso anno.