Recensioni / Ottonari per gli inermi

Eugenio De Signoribus Memoria del chiuso mondo Quodlibet 2002

Mentre i caccia statunitensi continuano imperterriti a bombardare i civili afghani, un libriccino bianco di poesia ci ricorda quella lenta carneficina che ormai da mesi avviene “sotto l’occhio consensuale / del civile occidentale”. Eugenio De Signoribus, uno del nostri maggiori poeti, è sempre stato un autore politico, secondo il movimento utopistico del rifiuto dell’esistente quasi consustanziale alla grande poesia. Ma in questa sua Memoria del chiuso mondo  (con una nota dl Andrea Cavalletti; Quodlibet pp. 44, Euro 7,00) l’obiettivo politico è assai più esplicitamente declinato rispetto ai libri precedenti: “Questa memoria – o forse meglio memorietta – è dedicata a quei popoli inermi e spaventati che si ritrovano a subire le devastanti guerre delle cosiddette superpotenze…”. La gravità del tema potrebbe far pensare a un’ingombrante presenza assiologica, moralistica al limite: invece qui il soggetto autoriale si ritira, lascia voce ad altri. Lo stile, pertanto, si adatta a musiche facili e native: domina l’ottonario del signor bonaventura, scendito in sestine. Una filastrocca quindi. Ma la filastrocca non ha alcun fine parodico, e meno che mai sarcastico. Qui sta la differenza con un’operazione che potrebbe apparire superficialmente simile a quella di De Signoribus, e intendo le Sette canzonette del golfo dell’ultimo Fortini di Composita salvantur (dove si registra, in effetti un testo – Ah letizia… – in strofi ottonari). La dolente parodia fortiniana, tutta catafratta in una dialeltica disperatamente negativa, lascia Iuogo in questa Memoria all’esperienza di una sostituzione conoscitiva ed etica: non un’immedesimazione – lo spiega bene Cavalletti –, ma la rinuncia al sé per lasciare voce a un bambino afghano, che vede la realtà con la semplificazione epistemica dell’infanzia, al di là di qualunque idilliaco “occhio ingenuo”.
Con il che la “memoria” del titolo è da intendersi come il ritorno inderogabile del male (semper aedem) e come utopica memoria del futuro, possibile solo allo sguardo del ragazzino e a chi ne ospita l’istanza. Di qui anche la possibilità dell’invocazione a un tu, diremmo, trascendente nell’immanenza (tu persona conosciuta / dalle cure già infantili / e poi sempre trasperduta / nella cerca di altri asili”). In quel mirabibile “trasperduta” riferito alla troppo umana immagine cristica violata dal paradigma sacriflcale, è concentrato il movimento aporetico – indietro e avanti – della spes contra spem, che incastona lo spazio religioso a quello politico nella fratellanza di una minimale comunità, lontanissima dalle servili guerre idolatriche delle relgioni ufficiali. Dopo il poemetto, quattro splendide semiprose ci portano ai nostri onori occidentali, la pena di morte, lo speronamento della nave carretta piena di migranti, la piazzaa genovese del G8 isolata dal mondo-della-vita e teatro di un immondo bestiario del potere. Vedi in quella nobile piazza qualcosa di tuo?…”:  la memoria, ecco, vuol dire essere la coscienza critica delle “smemorate comunità”, riprendersi con la forza della mente quella piazza, e le altre.