Recensioni / Quei versi che mettono al riparo dai confini angusti dell'identità

Un saggio sulla poetica di Andrea Zanzotto Lavoro accurato, esegesi raffinata, mai arida filologia, capacità di cogliere le tensioni col presente: la lettura che Enio Sartori, Sartori propone della raccolta poetica di Andrea Zanzotto Il Galateo in Bosco (1978) e, in particolare, della poesia Gnessulógo, è una lettura militante (Tra bosco e non bosco. Ragioni poetiche e gesti stilistici ne Il Galateo in Bosco di Andrea Zanzotto, Quodlibet, pp. 216, euro 22). Sondando l'origine ignota da cui sgorga la poesia, che nel suo dire la custodisce e la riattiva al contempo, esponendola al mondo, Sartori fa emergere il debito di Zanzotto con Heidegger e soprattutto con Lacan, ma anche la trasformazione a cui li sottopone, e mostra la prossimità della sua poesia con «lalingua» (lingua materna), che nella lallazione, nel balbettio e nel «petèl» («lingua con cui le madri si rivolgono agli infanti nel tentativo di imitarne la parlata, la "sintassi sonora"» o il «vagire somatico») esibisce il farsi del soggetto nel suo provar piacere e paura. Zanzotto crea nuovi mondi zampillanti da insoliti e inconsci intrecci, incontri, scontri, interruzioni, sospensioni, tagli, faglie, intervalli e vuoti (come fosse un «andar per boschi»), e abrade l'illusione di un'armonia perduta, stato primigenio di grazia, Arcadia svanita, che sarebbe un dovere ripristinare: «gli déi del luogo sono più pericolosi degli déi della tecnica». Ogni terra è «sempre avveniente», come ogni lingua.
Al contrario, il «ludus liberatore» di assonanze, allitterazioni, ripetizioni, interruzioni e scambi di significanti, ha la capacità di mostrare che non c'è «mai stata origine, mai disiezione», che il logos «resta sempre in divenire, poiché mantiene, «pur nel suo dirsi», quel tratto «quasi infante» che lo rende indisponibile a ogni raggelamento, lontano da ogni trono, proprio perché non fonda territori», annunciando che «ogni territorialità sfuma in quelle contigue».
Il «Trickster» (nome anche della rivista che Sartori dirige) ne è l'esemplificazione, perché «lalingua», come il poeta e il «bisnènt» («sottoproletario che vive di espedienti, sfruttando anche, in misura minima e caoticamente, le risorse del bosco»), è una specie di «bricoleur», che assembla materiali d'ogni tipo, che «raspa su» (raccoglie) quel che trova nella «lingua-bosco», dantesca «selva oscura», «accesso al rimosso», in cui ci si perde e ci si ritrova per poi riperdersi e così via, vivendo senza redenzione, evitando «una posizione di trascendenza» ma cercando di «memorizzare» i resti e gli scarti che ogni dire produce.
La parola di Zanzotto dalla provincia profonda del mitico Veneto felix getta un seme per l'Europa e il mondo intero contro le false patrie e le identità fittizie camuffate da tradizioni inventate ad hoc, a favore del «sentirsi Gnessulógo» (avverbio), perché «una lingua non possiede un luogo proprio» e la poesia «conduce verso quel fuori che ogni lingua contiene dentro di sé, invitando colui che la parla e scrive a un esilio dentro la sua propria lingua». Il dialetto, diventato purtroppo il simbolo idiota della paura che costruisce muri contro il «fuori», segnala che «non vi può essere dimora linguistica propria entro cui pacificamente accasarsi», perché ogni lingua chiede, necessariamente, «la più smagante apertura su alterità, futuri, attive dissolvenze», al fine di deporre la «"superbia da pollaio", che riduce gli idiomi a "idiozie"» identitarie «di matrice nazionalistica o localistica» oppure li snerva attraverso l'uniformazione imposta dagli «imperialismi» o dalla «globalizzazione». In questo saggio Sartori riesce a restituirci tutta la libertà gioiosa che «lalingua» di Zanzotto sprigiona di fronte al «reale» (la morte), inappropriabile che spinge la poesia a ricominciare in forme che sanno stupire.