Recensioni / Non monumenti ma città leggere fatte per bambini

Per i politologi le elezioni amministrative sono un test del governo o, come da anni sentiamo ripetere, un referendum su Berlusconi. Ma poi, chi vota lo fa guardando al tema della città, dei suoi spazi, delle sue funzioni e dei suoi simboli. Dalla Moschea di Milano ai condoni di Napoli, dalle piste ciclabili ai quartieri multietnici, passando per il trasferimento dei ministeri da Roma, gran parte della campagna elettorale è stata attraversata da questioni urbanistiche e temi cari all’architettura, seppur inevitabilmente risolti in chiave populista, o liquidati con slogan beceri, come la “Milano zingaropoli” paventata dalla Lega. Eppure, mai come in questi casi si avverte la necessità di dibattiti trasversali agli schieramenti. Perché, al di là dei credo politici, servono modelli attraverso cui pensare e progettare il rap- porto tra memoria, identità e integrazione nelle nostre città. Così, di fronte all’urgenza di costruire assieme uno spazio migliore in cui vivere, l’architettura entra in gioco lasciando da parte i suoi cerimoniali glamour, le sue performance virtuosistiche. Luca Zevi, architetto e professore universitario, progettista del prossimo Museo della Shoah di Roma, autore del recente Conservazione dell’avvenire (Quodlibet), afferma in proposito: «L’architettura roboante con le sue grandi opere, alcune certamente bellissime, corrisponde inevitabilmente a una fase in cui c’è un libero fluire del mercato. L’architettura si offre allora come una monumentalizzazione delle imprese, dell’idea di sviluppo libero, senza freni. Dal 2009, come sappiamo, questo mito del mercato è venuto meno. È iniziato un processo di ripensamento che ha a che fare con la necessità di trovare un progetto collettivo attorno al quale raccogliere le forze. Mi pare che a Milano, ad esempio, questo te- ma si sia avvertito. L’idea di ristabilire una dimensione comunitaria di solidarietà è stata molto importante. La questione di Napoli, e dei condoni, è più delicata. Da un lato c’è un atteggiamento mirato a santificare tutto ciò che è stato edificato, indistintamente. Dall’altro, ed è quello in cui mi muovo io, c’è l’idea di mettere in atto misure leggere e rapide con le quali far vivere meglio chi abita la città. Provvedimenti leggeri, per rendere ad esempio la città a misura dei bambini, significa andare al di là dello stato di rassegnazione, dello status quo». Ma dietro l’opportunismo politico e il tentativo di strappare voti all’ultima ora, anche la questione dei ministeri, infondo, chiama in causa la vivibilità difficile di una città come Roma, con le tante funzioni simboliche che è chiamata a interpretare. «Questo però», prosegue Zevi, «per Roma rappresenta una risorsa. Io cioè non credo che i problemi di questa città dipendano da un eccesso di rappresentatività, dal fatto che sia la capita- le politica e il simbolo del cristianesimo. Semmai, in tutti questi anni il problema è stata una certa rassegnazione di tutte le amministrazioni a ingraziarsi la categoria dei costruttori, spesso anche a detrimento dei costruttori stessi». Nel suo libro e nel suo lavoro di architetto, Zevi intreccia il discorso della memoria e del rapporto con l’identità, cercando di ripensare entrambe nell’orizzonte “aperto” dei nuovi modelli di società in cui ci muoviamo. Sua, ad esempio, l’idea di un “Museo delle Intolleranze e degli Stermini”. Un museo pensato per con- sentire il dialogo tra memorie diverse. È un’idea che prese piede ai tempi dell’amministrazione Veltroni, poi caduta con la fine del governo Prodi. Un’idea, però, che anche alla luce di quanto sentito nella campagna elettorale di Milano, potrebbe essere uno dei temi su cui più insistere in futuro. «Questo progetto è un mio sogno, ed è quello che serve oggi. Me- moria e identità sono concetti delicati che possono, e a volte ten- dono a produrre autocentramento o addirittura nuove intolleranze. Penso allora a un luogo in cui si possa riflettere non sul singolo episodio, ma sul generarsi dei processi di intolleranza, proprio per capirli e capire come continuano a manifestarsi sotto i nostri occhi. Questo ovviamente non toglie l’assoluta importanza del grande Museo della Shoah che stiamo per costruire a Roma, a Villa Torlonia. D’altronde, come cerco di mostrare nel mio libro at- traverso una rilettura della tradizione ebraica, è possibile guardare al passato come qualcosa da scoprire, anziché da monumentalizzare. Quella espressa nell’ebraismo è cioè un’idea vitale di memoria, che manifesta un rap- porto non feticistico con il passato e come tale può essere utile proprio oggi, perché travalica le singole identità da monumentalizzare». Un discorso simile, paradossalmente, entra in gioco anche nel rapporto tra la memoria e l’identità italiana e l’architettura fascista. «Ancora oggi c’è molta confusione in giro, nei dibattiti. Si tende a presentare l’architettura fascista come un blocco unitario. Invece c’erano varie posizioni, assai conflittuali tra di loro. Il fascismo, in architettura, ha avuto un’anima futurista, un’anima monumentalista e un’anima razionalista. Trovo bellissimi alcuni edifici e orrendi altri. Sabaudia, ad esempio, si vede che è una città realizzata sulla base di un progetto coerente e funzionale. Latina, Pomezia sono invece scoraggianti. Anche perché si è tentato di coniugare il folklore rurale col monumentalismo più sciatto». Insomma, l’architettura e la politica che va da sé viaggiano assieme da sempre, oggi sono chiamate a nuove sfide. In Italia non abbiamo i problemi posti dalle cosiddette megalopoli, ma le sfide dell’integrazione e dell’identità, del rapporto tra nuove funzionalità e patrimonio storico, non sono da meno. Ma allora, abbiamo più bisogno di architetti o di politici che credano nell’architettura? «I politici che credono nell’architettura sono molto importanti e dovendo scegliere direi che sono loro l’elemento decisivo. Ma questo non può tranquillizzare noi architetti. A partire dal dopoguerra, l’architettura in Italia ha avuto occasioni importanti per incidere sul paese e non sempre le ha sapute sfruttare. Ci sono ancora oggi politici che si rendono conto dell’importanza dell’architettura, e spero che noi architetti saremo in grado di rispondere alle sollecitazioni e alle buone intenzioni della politica».