Recensioni / Celati ovvero l'arte di raccontare leggero come il vento

Le «Conversazioni» contenute nel nuovo libro dello scrittore spaziano dal cinema alla comicità alla letteratura, raccogliendo spunti da tempi e situazioni diverse, riviste, giornali, siti internet, incontri...
 
Il nuovo libro di Gianni Celati ‑ che contiene interviste, colloqui e altre occasioni ‑ si chiama Conversazioni del vento volatore e mai titolo era stato più appropriato nel corrispondere alla forma e alla sostanza dell'erranza celatiana. Tutta l'opera di Celati sembra infatti come sparpagliata dal vento, da raffiche che cambiando direzione cogli spostamenti d'aria nell'atmosfera, rimescolano continuamente questi frammenti leggeri che sono la sua scrittura, il suo cinema e la sue parole, prive della gravità tombale dell'opera chiusa in un solido monumento.
Così anche questo libretto di conversazioni mantiene traccia della ventosità divagante e riunisce cose sparse in tempi diversi su riviste e giornali, siti internet e pubblici incontri. Oppure riesumate in qualche cassetto dove erano provvisoriamente finite.
 
CONVERSAZIONI PROVVISORIE. Le conversazioni hanno infatti questo di particolare: che sono provvisorie. Si dissolvono nel momento in cui la compagnia si scioglie per ricostituirsi altrove, quando ci si ritrova ancora insieme agli altri per far circolare divagazioni e tracce d'idee che tornano o mutano seguendo gli impulsi del momento, le induzioni locali e il tempo.
Così, via via, la voce di Celati in questo libro pubblicato da Quodlibet nella fantasticante collana Compagnia Extra, ci parla di cinema, fantasia, comicità, deserto, essere al mondo eccetera. E, certo, anche di letteratura e dell'antica tradizione del racconto. Perché anche le narrazioni nascono dalla conversazione ‑ dice Celati ‑ dai «fiori del parlare». Di lì viene la novella, che Boccaccio incornicia nella conversazione di una brigata di giovani, e i novellieri suoi contemporanei nei cerimoniali introduttivi che servivano a creare uno spazio di condivisione in cui il narratore teneva gli ascoltatori sul «filo della temporalità» e della sua mutevolezza.
La parola e l'immaginazione che nascono da questa condivisione di uno sfondo comune, dal «fabulare quotidiano», sono per Celati essenzialmente qualcosa che ti porta fuori, nell'estraneità, verso gli altri e il mondo esterno attraverso la fantasticazione. «Gli uomini sono tutti dei narratori, perché sono dei fantasticanti», dice.
Si capisce allora come questa prospettiva quasi vichiano-leopardiana entri subito in rotta di collisione con l'imperante letteratura industriale, la «baldoria dei consumi» e l'utilitarismo ottimista che guida i professionisti dell'editoria, «i controllori manageriali della letteratura». La vendibilità si basa sull'estraneità, sulla novità, che poi è solo un «lancio di cadaveri alla moda», ben presto sostituiti da altre novità in ossequio all'attualità che con la sua accelerazione moderna cancella ogni traccia di memoria e d'immaginazione (per Vico erano la stessa cosa).
 
A volte la radicalità di Celati rispetto al mondo d'oggi e alla sua letteratura può apparire quasi umorale, ma è sempre pertinente e ci offre una via di fuga che dà un certo sollievo.
Via via, oltre alle parole su Alberto Giacometti, Swift, Werner Herzog o Joris Ivens, Delfini e Manganelli, sul vedere e lo scrivere, nelle varie conversazioni si delinea in bozzo anche il percorso intellettuale e quasi biografico di Celati.
I viaggi, gli studi al British Museum, le lezioni di Enzo Melandri, la nascita dei suoi libri, l'università statunitense, quella di Bologna, il rapporto con Italo Calvino e con Luigi Gbirri. E ne viene fuori un percorso tutt'altro che lineare, caratterizzato da un'erranza tanto fisica quanto intellettuale, da fughe ripetute dall'istituzionalità, sia essa universitaria o letteraria. L'erranza va insieme all'errore, e Celati dice appunto di aver sempre seguito questa via, ché l'errore è «come l'aria stessa della vita».