Quando nel 2002 uscì il terzo romanzo di Tommaso Pincio, Un amore dell' altro mondo , i miei più giovani amici avevano finito per logorami. Pincio di qua e Pincio di là, non ne potevo più. Lo lessi e recensii in modo non del tutto benevolo. Ma ciò che oggi mi si imputa, di avergli malignamente attribuito cinquant' anni, non è vero. Semmai è vero che non avevo capito il segreto del suo stile, che mi limitavo a definire imitativo, da fan, come un fan di Kurt Cobain era/è il narratore di quel romanzo. Nel 2002 di anni Pincio ne aveva 39 e cinque meno di lui Daniele Giglioli, oggi autore di Senza trauma , un saggio sulla narrativa italiana degli anni zero. Perché accomuno questi due scrittori così diversi tra loro? Giglioli è un insolito critico letterario. Scrive benissimo, arrivando a trasmettere il suo coinvolgimento nei testi che analizza. Inoltre non si limita a emettere giudizi più o meno empirici. Traccia un quadro, delinea un orizzonte. Partendo da lontano, da Adorno e dal Benjamin del Dramma barocco tedesco , chiude un cerchio critico con il Barthes che allo stile contrappone (ma il termine non è esatto) la scrittura, ossia il luogo in cui all' «espressione biologica di una individualità irrelata» subentra una presa di posizione, un impegno, la «scelta di un Bene determinato». Non basta. Dopo Barthes, nella narrativa contemporanea si affaccia Lacan, anzi il Reale di Lacan, cioè l' opaco, l' indicibile, l' innominabile: tutt' altro dal reale la cui cattura sembra, di questa narrativa, la migliore ambizione. Dico di più: in Giglioli il Reale assume le proporzioni di ciò che in Auerbach era la Figura: la Figura forse era buona, il Reale forse è cattivo, o comunque non si può sapere. Intorno a questa ignoranza gravita un discorso che individua due dominanti filoni di rappresentazione: il genere ( noir ) e l' autofinzione. Gli scrittori di cui Giglioli discute rientrano in queste categorie. Il punto critico per me è: perché tutto ciò che l' autore dice è convincente e nessuno, o quasi, dei suoi scrittori lo è? Perché l' arcata di bellezza che egli (intellettualmente) configura poggia su romanzi scritti male ( Le rondini di Montecassino di Helena Janeczek ne è un esempio flagrante), approssimativi, brutti? Va bene che la medicina è un' arte, ma la critica non può limitarsi al rilievo e alla classificazione dei sintomi se non riaffermando, sia pure contro se stessa, un dominio. In un elenco cospicuo di nomi, scrittori schiettamente stilistici come Permunian, Pedullà, Trevisan e Pincio sono trascurati. Di Pincio non c' è che il nome. Su di lui, io ho cambiato idea. Due anni fa lo incontrai a Berlino e la nostra cena si prolungò fino all' alba. Poi la scorsa primavera lessi la ristampa de Lo spazio sfinito , che mi colpì moltissimo come variante di Cancroregina di Landolfi, un racconto che (ora apprendiamo) Pincio non conosceva. Ma il libro fatale è Hotel a zero stelle : per me lo colloca, tra gli scrittori nati negli anni Sessanta, ai vertici. La domanda che ci si pone rileggendolo dopo aver letto Giglioli è: perché Giglioli non parla di Pincio? Proprio in ragione, io credo, della sua virtù. Pincio si situa nel crinale in cui lo stile affiora in tutta la sua potenza singolare (d' un sentimento, d' una posizione), per morbidamente confluire, da fiume in piena che era, nella quiete di un lago, quella della scrittura che tutti possiamo condividere. Ma ciò che prima non vedevo, il suo stile, Giglioli lo vede troppo, forse lo induce a collocare Pincio nella modernità, o addirittura nel modernismo. Insomma nel Novecento. Al contrario, egli non è affatto un epigono - nei limiti in cui è ormai possibile. Ossessionato com' è dal tema dell' impostura (là dove il rapporto tra finzione e testimonianza si converte in un problema morale), e partendo dagli scrittori che ama, di cui racconta le vicende e di cui perfino disegna i volti, nascondendosi dietro di loro ma fatalmente rispuntando, alla ricerca di un se stesso veritiero e plausibile, Pincio arriva fino a noi, cioè agli anni di cui Giglioli si occupa: ci arriva in modo autorevole poiché realmente problematico, o critico. Ma prima di concludere voglio rispondere a due richieste precise. Che stile è lo stile di Pincio? Del fan egli ha solo il tratto femminile, una certa remissività, una dolcezza a oltranza. E dell' autore ha l' orgoglio, sessualmente neutro, e ben deciso a sopravvivere: l' uso di idiotismi, espressioni desuete e modi di dire popolari è quanto egli assume della scrittura di «genere» in una «autofinzione» di cui non rimane che il dubbio su ciò che sia finzione. Vi è, in quest' arte, un umorismo che corre sotto il puro racconto, che si nasconde, e che costantemente riemerge a svelare la propria sfiducia o, quanto meno il sospetto, che proprio l' arte sia la più raffinata delle menzogne. L' ultimo lettore dello scrittore argentino Ricardo Piglia ci aiuta a definire la natura di Hotel a zero stelle . Ci dice che lettore è lo scrittore Pincio. Egli ci parla (ma spesso non ce ne parla affatto) di alcuni romanzieri per lui importanti: da Kerouac a Foster Wallace, da Simenon a Orwell, da Pasolini a Landolfi. Ma in realtà i suoi saggi sono racconti, i suoi racconti sono squarci autobiografici, i suoi squarci autobiografici sono saggi morali. Sempre, si capisce che Pincio legge per capire come si deve vivere: «Sono io una brava persona?» «Sono o voglio sembrare una brava persona?» «Come faccio a sapere se mi sto prendendo per il culo da solo, moralmente parlando?» Pincio è un lettore notturno - semiaddormentato, allucinato, oscillante, vacillante, perplesso. Come nel racconto di Borges Tlön, Uqbar, Orbis Tertius egli sospetta che ciò che irrompe non sia il reale ma l' assenza, un testo di cui non dispone, un' altra realtà. O, come Amleto, egli entra in scena con un libro in mano: vorrebbe agire ma la lettura lo trattiene. Come il Kafka delle lettere a Felice Bauer, infine, egli non altro desidera, con i suoi racconti, che di legare le ragazze con la scrittura. Il fatto di non riuscirci, tutto sommato, era prescritto.