È una storia degli anni sessanta: Jerôme e Sylvie vivono una bohème presa a prestito in piccoli appartamenti parigini, fatta di feste e film in bianco e nero, di pranzi i cui bislacchi assortimenti mascherano soltanto l’economicità degli ingredienti: vogliono essere ricchi perché si sentono nati per esserlo, sono certi che la ricchezza arriverà così, naturalmente, come a un certo punto spuntano i primi baffi. Nel frattempo si occupano di sondaggi, di indagini di mercato, di pubblicità: attraversano gli scenari della merce e della società dello spettacolo tenendo come bussola soltanto il loro desiderio, il loro sogno di agiatezza. Alla fine ce la faranno e non ce la faranno: troveranno finalmente un impiego fisso ben pagato, indosseranno le camicie di seta che prima desideravano, viaggeranno in prima classe e si siederanno al vagone ristorante: «Ma il pasto che gli verrà servito sarà francamente insipido».
Le Cose (ed. orig. 1965, trad. dal francese di Leonella Prato Caruso, prefaz. di Andrea Canobbio, pp. XLI-122, € 17,50, Einaudi, Torino 2011), il primo e fortunato romanzo di Georges Perec, si apre e si chiude su due citazioni. L’ultima, di Karl Marx, viene a Perec da un articolo di Ejzenstein e, nonostante l’incomprensione e lo scetticismo con cui viene guardata nel formicolante clima politico della metà degli anni sessanta, ha a che fare molto più con la forma e la letteratura che non con il capitale e la reificazione. Marx, e il feticismo della merce da lui individuato, stanno certo alla base del libro, che di fatto è, come aveva notato uno dei suoi primi lettori, che pure aveva sottomano una redazione embrionale, «un romanzo, una storia sulla povertà inestricabilmente legata all’immagine della ricchezza». Sono parole di Roland Barthes, che con i suoi Miti d’oggi viene riconosciuto dallo stesso Perec come uno dei quattro «padri» delle Cose: gli altri sono Flaubert, Paul Nizan (quello critico e militante di La cospirazione, non quello lirico e incendiario di Aden Arabia) e Robert Antelme. La storia della complessa gestazione di Le cose è raccontata da Andrea Canobbio nella sua bella prefazione: non è certo l’ultimo motivo per rallegrarsi di questa nuova edizione einaudiana, che rimette all’onore dei cataloghi anche la versione (riveduta dall’autrice) di Leonella Prato Caruso, la stessa che tradusse il libro nel 1966. Canobbio s’intrattiene a lungo sui rapporti tra il libro di Perec e i suoi quattro ispiratori; del resto, che l’autore di Il naturale disordine delle cose fosse particolarmente consentaneo a quello di La vita istruzioni per l’uso lo si evinceva già dall’incipit marcatamente perecchiano del primo romanzo di Canobbio, Vasi cinesi (Einaudi, 1989).
La citazione che apre il libro ci consente di rimescolare un poco le carte in tavola: è in inglese e proviene da Sotto il vulcano di Malcolm Lowry, che fu sempre tra i libri prediletti di Perec. Racconta enfaticamente le magnifiche sorti e progressive dell’umanità e della tecnologia; Perec l’aveva già impiegata come epigrafe in un articolo del 1963 sulla fantascienza, apparso sulla rivista «Partisans». In quell’articolo Perec analizza alcuni romanzi americani di fantascienza appena tradotti in francese, e uno di essi è I mercanti dello spazio di Frederick Pohl e Cyril M. Kornbluth, tradotto anche da noi per «Urania» (1962). È la storia di un pubblicitario che deve creare una campagna volta a convincere gli umani a emigrare su Venere per risolvere i problemi di sovrappopolamento: il suo compito è dunque quello di creare nuovi bisogni e nuove soddisfazioni attraverso le merci che trasformino l’inospitale pianeta alieno in uno status symbol, in una meta agognata. Deve creare, in altre parole, una nuova immagine di ricchezza, concorrenziale a tutte quelle che già stanno in agguato in un presente immanente che, al solito, la science fiction traveste da futuro remoto. Alcune citazioni sono palmari: se Jerôme, all’inizio del libro, scopre «la magistrale gerarchia delle scarpe, che va dalle Church alle Weston, dalle Weston alle Bunting e dalle Bunting alle Loeb», ecco che invece il pubblicitario Courtenay dei Mercanti dello spazio acquista dei biscotti Crunchies: «I Crunchies mi procuravano dei sintomi che riuscivo a tacitare solo con altre due razioni di Popsie. E l’acqua mi procurava dei sintomi che solo una sigaretta Starr poteva domare. La Starr mi faceva venir voglia di altri Crunchies …».
Certo non si vuole ridurre Perec a un plagiario, né sarebbe possibile vista la cultura onnipervasiva, tentacolare, splendidamente ricettiva che gli ha consentito di scrivere La vita istruzioni per l’uso; ma, accanto ai quattro padri nobili di Le cose possiamo fare spazio a questo cugino americano impertinente e un poco chiassoso che è I mercanti dello spazio. Del resto, era il parfum du temps. Erano gli anni delle lezioni di Lefebvre e della riscoperta del giovane Lukács, della Nouvelle Vague (Godard inserirà uno scoperto détournement di Le cose in Masculin féminin, 1965) e dell’Internazionale Situazionista (che definirà sprezzantemente Perec come «le consommateur des choses»). Come si diceva, è una storia degli anni sessanta: ma a ripercorrerne le pagine si stenta a crederlo.
Alla fine del decennio e all’inizio del successivo appartiene invece La bottega oscura (ed. orig. 1973, trad. dal francese e note di Ferdinando Amigoni, pp. 345, € 16, Quodlibet, Macerata 2011), finora inedito in Italia, e ghiottamente proposto da Quodlibet dopo la nuova versione di Un uomo che dorme (2009). Il libro è esattamente quello che dice il suo sottotitolo: 124 sogni, fatti e scritti da Perec tra il 1968 e il 1972.
Quello dei rapporti fra letteratura e sogno è uno degli ambiti più infidi e pericolosi per il critico: Ferdinando Amigoni, dotto curatore di questa edizione italiana, ha scelto la via, rischiosa ma legittima, dell’approfondimento biografico, nonostante l’esergo di Perec («Credevo di annotare i sogni che facevo: mi sono reso conto, assai presto, che sognavo solo per scrivere i miei sogni»). Il rischio è quello di costringere il fantasma dello scrittore a una Traumdeutung minuziosa, agiografica e forse un poco invadente, di cui si dà conto nel lungo apparato di note, smorzando il carattere squisitamente letterario di questa «autobiografia notturna», di questa splendida resa dei conti con i propri fantasmi e le proprie ricchezze che Perec ha voluto cesellare nel minimo dettaglio: ogni sogno ha un titolo, ogni racconto ha un suo stile preciso; è lo sforzo della scrittura per dare un conto il più possibile esatto di quella che Roger Caillois chiamava, a ragione, «l’incertezza che viene dai sogni». Nella versione originale, le pagine del libro non sono numerate, e questo contribuisce a dare loro quel clima che sta a metà tra la fantasia e il racconto, a restituire quel senso di irresolutezza e d’incanto che già aveva sperimentato Michel Leiris in Notti senza notte. Questo semplice espediente tipografico è sparito (ma perché?) dall’edizione italiana, così come è scomparsa (eccetto un blurb sulla quarta di copertina) la postfazione di Roger Bastide che, in Francia, accompagna il libro sin dalla prima edizione. È l’ultimo testo scritto in vita dal grande sociologo francese, e si chiude così: «Questa raccolta, della quale speriamo, commentandola, di non aver troppo attenuato la scintillante bellezza e la carica lirica», e sono parole sante. Siamo abbastanza lontani dai Casi clinici di Freud, e piuttosto vicini agli Esercizi di stile di Raymond Queneau, che del resto risponderà maliziosamente all’amico raccontando avvenimenti reali e trasformandoli in sogni con «un minime effort de rhétorique» (Des récits de rêves à foison, in Contes et Propos, Gallimard-Folio, 1981).
Storia di un quadro (ed. orig. 1979 e 1994, trad. dal francese di Sergio Pautasso, pp. 99, € 15, Skira, Milano 2011), per ora l’ultimo testo di questa felice renaissance perecchiana, è anch’esso una riedizione (Rizzoli, 1990): il quadro di cui narra ha per titolo Un cabinet d’amateur, ed è una versione moderna di quei ritratti di collezionisti che nel Seicento e Settecento divennero un vero e proprio genere pittorico, in cui il committente si faceva raffigurare con tutta la sua collezione d’arte. Nel caso in questione, il magnate della birra Hermann Raffke si fa ritrarre fra i suoi tesori d’arte dal pittore Heinrich Kürz, ma il pittore inserisce nel quadro una copia del quadro medesimo che a sua volta contiene, in una vertiginosa mise en abîme, altre copie degli altri quadri, sempre con piccole varianti. Quella dell’inventario e dell’ékfrasis è un’arte che Perec padroneggia molto bene, come sanno i suoi lettori, e nelle descrizioni dei molti quadri e delle loro copie l’autore strizza l’occhio al linguaggio degli antiquari e degli storici dell’arte, soprattutto dei connaisseurs e dei formalisti otto-novecenteschi, come aveva fatto con altri gerghi specialistici in Cantatrix Sopranica L. e altri scritti scientifici (Bollati Boringhieri, 1996). Eccolo rifiutare un’attribuzione a Bosch «proposée par Cavastivali», oppure citare in conservatore del Museo di Firenze Emilio Zannoni che trova «in mediocrissimo stato di conservazione» il Ritratto del Cardinale Barberini del Donnaiolo. Ma Perec non manca nemmeno d’inserire gustose invenzioni perfettamente congegnate «per il solo piacere, e l’esclusivo brivido, della finzione (le seul frisson du faire-semblant)»: come l’edgarpoesco Il biglietto rubato, dipinto, nientemeno, da Vermeer e acquistato dalla fondazione Edgar A. Perry di Baltimora; la misteriosa (leonardesca?) Annunciazione tra le rocce; oppure, più fantasmagorico di tutti, Venera che consegna a Enea le armi di Vulcano (di cui rimane una celebre citazione vasariana), dove Giorgione risolveva da suo pari l’eterna questione del Paragone delle arti. Ma Storia di un quadro è anche, in qualche misura, un autoritratto, costellato di citazioni da altri libri di Perec: a volte per esempio il numero dei cataloghi d’asta rimanda a capitoli di La vita istruzioni per l’uso che evocano situazioni omologhe al dipinto citato. Nell’ultima mossa di questo gioco di vertigine risuona ancora un’eco dell’abusato Artefice borgesiano: «Poco prima di morire, scopre che quel paziente labirinto di linee traccia l’immagine del suo volto».