Comprendere il senso di una costellazione di narrazioni, a prescindere da ogni giudizio di valore e dalla costruzione di un possibile canone. Daniele Giglioli, nel suo saggio Senza trauma. Scrittura dell'estremo e narrativa del nuovo millennio (Quodlibet, pp. 115, euro 12), con un'etica spinoziana, fedele al motto «non ridere, non piangere e non detestare, ma comprendere», legge i testi della nuova narrativa italiana - nei due complementari corni della narrazione di genere e dell'autofinzione - come «sintomi», attraverso la chiave del trauma. 11 trauma è ciò che è troppo grande, smisurato, per essere tematizzato. È quella dismisura che negli anni recenti non abbiamo vissuto: guerre, epidemie, calamità, disastri. Traumi collettivi, non individuali. La modernità è stata attraversata da una serie impressionante di traumi: «industrializzazione, inurbamento, secolarizzazione, modernizzazione tecnologica, guerre mondiali, armi di distruzione di massa». Oggi non è più così. La televisione è stato il nostro Vietnam, dice Giglioli - dove l'aggettivo possessivo indicalo spossessamento di un'intera generazione (e questo è anche un libro autobiografico, come si percepisce dall'intensità cristallina della scrittura), la sua mancata presa sul mondo, la sua incapacità di agire. La nozione di trauma ha, come «correlativo soggettivo» necessario, l'impotenza del soggetto nei confronti della realtà.
Dove realtà e rappresentazione tendono a coincidere, dove siamo spettatori passivi di un mondo che sembra fare a meno di noi, viene meno l'autonomia pratica dell'uomo, e la sua responsabilità. Viene meno, in una parola, la politica. A questo rispondiamo immaginando traumi, che ricorrono nell'immaginario, nel linguaggio comune e nella letteratura. Di qui «la scrittura dell'estremo», unico punto di fuga che si sa intravedere nell'assenza di mondo, quel «Reale» che resiste a ogni tentativo di simbolizzazione. Dunque la predilezione per la violenza, il sangue, la morte, l'effrazione insomma, che dilagano nel genere e nell' autofinzione. Due modi di combattere la rappresentazione che ha requisito il mondo, con le sue stesse armi. Il genere, da una parte, con le controstorie e il complottismo universale, la paranoia come segno estremo di impotenza: De Cataldo, per esempio, con la sua ideologia intrinsecamente reazionaria, perché leggere la storia d'Italia come un' ininterrotta guerra per bande significa ridurre a nulla il concetto moderno dell'individuo autonomo e responsabile. L'autofinzione, dall'altra parte, in cui si rileva «un rapporto con la realtà in cui il soggetto più parla di sé e più sembra farsi da parte a stilare il verbale della sua marginalità, della sua impotenza, della sua inesistenza». E qui, le lucide letture delle opere di Saviano, Moresco, Babsi Jones, Janeczek, Trevi, Siti, Pecoraro, Nove, Genna. La scrittura dell'estremo «ci mostra quale sia il terreno su cui poggiamo il piede. Il piede sinistro, quello debole. Ora si tratta di decidere dove mettere l'altro». E forse questo è il giudizio di valore decisivo.