Recensioni / Lo sguardo di Giglioli su genere e «autofiction»

Dire che un saggio è insieme agguerrito e brillante, agile e densissimo, potrà far cadere le braccia, ma tant'è: in omaggio al luogo comune secondo cui i luoghi comuni tornano sempre utili, sono queste le formule più adatte per mettere a fuoco il rilievo del libro appena uscito di Daniele Giglioli, Senza trauma. Scrittura dell'estremo e narrativa del nuovo millennio (Quodlibet, pp. 120, euro 12). Un libro che, sottolineando la proliferazione di discorsi sull'elemento un tempo per definizione rimosso, il trauma, e tracciando un quadro della contemporaneità necessariamente sintetico (in parte rettificato, come vedremo, nelle ultime pagine), avanza subito il suo assunto: se conflitti e calamità ci raggiungono solo mediati e depotenziati dagli schermi, se i traumi veri sembrano remoti, la loro rielaborazione immaginaria è una delle strategie più impiegate per restituire senso alla confusione e alla paralisi dell'esperienza; e questa rielaborazione ispira una scrittura protesa a quanto sembra indicibile, una «scrittura dell'estremo» biforcata in due diramazioni, la produzione di genere (noir, fantascienza, romanzo storico), e l'autofiction, narrazione autobiografica vistosamente impastata di invenzione.
Diramazioni che Giglioli esamina con un taglio diverso (a cui è sotteso un diverso grado di interesse), allineando gli autori «di genere» (Ammaniti, De Cataldo, Lucarelli) in una ricognizione che ne evidenzia le analogie, e dedicando invece a vari esponenti dell'autofiction (Saviano, Janeczeck, Trevi, Siti, Moresco, Nove, Genna) approfondimenti che ne valorizzano le specificità. Innestato su una vasta rete di riferimenti (smagliata solo dalla rinuncia ai rinvii bibliografici su questioni importanti come le molteplici gamme della non fiction o la discussione intorno a Saviano), il suo discorso mostra sagacemente che questi filoni, punte di diamante dello strombazzato «ritorno al realismo», tendono piuttosto a eludere le domande e gli impacci posti dalla realtà: il romanzo noir e storico caricando al massimo (con il supporto di un consolidato repertorio) una finzione fatta di eccezionalità e avventura, e attribuendo le disfunzioni del presente a una fitta trama di cospirazioni occulte; l'autofiction esibendo l'ambigua autenticità di un vissuto personale intriso di disagio e spesso risolto in radicale impotenza.
Il panorama che ci circonda, però, è più variegato: questi orientamenti sono dilaganti, non obbligati, come non lo sono gli stereotipi in cui sovente arrancano. Giglioli ritiene «non una debolezza o un vezzo, ma una necessità» (legata alla sempre più difficile rappresentabilità del mondo) tratti della narrativa di genere quali le vicende preconfezionate e la serialità dei personaggi, che a mio avviso rimangono non necessità ma debolezza; e se osserva acutamente che un certo acclamato realismo - in cui la storia è ridotta a uno scontro di turpi interessi risolvibile solo da una volontà superiore - piace perché congeniale a una diffusa ideologia reazionaria, non si sofferma sulla possibilità di un realismo differente, in grado (come il realismo tradizionale esplorato da Lukács) di travalicare le ideologie ufficiali e quelle degli autori stessi.
Ma se (come il libro ricorda opportunamente in conclusione) i traumi concreti non sono davvero scomparsi, e anzi ci incalzano, in forme magari filtrate o subdole, comunque pressanti (sperequazioni crescenti, negazioni di diritti, precariato, minacce di catastrofi ecologiche e finanziarie), esiste una letteratura che prova a misurarsi con il loro impatto; se, per rifarsi a una distinzione di Debenedetti, molte opere vanno rimbalzando, e banalmente, sull'atteggiamento esplicativo del romanzo ottocentesco, altre sviluppano ulteriormente quello interrogativo tipico del Novecento. Anche all'interno dei filoni in esame, per nulla uniformi: per citare casi già apprezzati dai critici (Giglioli compreso), le opere di autofiction di Cordelli e Siti gravitano su un rapporto tra io e mondo mobile, complesso, che dà voce a sfere diverse della realtà; e per citarne uno dai critici invece disdegnato, l'acre umorismo dei primi Camilleri non si piega alle convenzioni di genere ma piuttosto le forza sottilmente dall'interno.
Sono puntualizzazioni da cui non si può rifuggire, perché non si può rifuggire da un'esigenza tornata a galla persino negli indirizzi che più cercavano di bandirla (basti pensare ai classici dello strutturalismo): la valutazione. Giglioli, che mira (e riesce) a individuare tendenze d'insieme, rifiuta legittimamente di formulare giudizi di valore; eppure, ne fa implicitamente sentire l'ineludibilità. Con le opinioni che trapelano dalle sue analisi; con un quadro troppo penetrante per non sollecitare la ricerca di sfumature; e inoltre con un richiamo al «difetto di politica» dei nostri tempi, alla frustrazione del bisogno di partecipazione del soggetto, che indirettamente rimanda anche alle responsabilità della critica.
Responsabilità in cui rientra quella di notare quando una voga è alimentata da apporti originali e quando si riduce a lasciapassare della notorietà, camuffamento dell'inerzia creativa, magari bacino di mistificazioni (ultimamente i diritti della finzione sconfinano spesso nell'arbitrio della falsità, il romanzo storico e l'autofiction puntano più che alla reinvenzione dei fatti a una loro distorsione tendenziosa, obbediente a vulgate di moda e a convenienze generali o personali: trincerandosi dietro l'autonomia della letteratura, non fanno che sabotarne la libertà e sottrarle il suo potere di problematizzazione per aggiogarla a scopi contingenti).
Certo, poi, districare le variazioni che si aggrovigliano dentro le costanti è una sfida sempre impervia, e che ora può risultare fastidiosamente pedante, scarsamente cool, o prossima, per riprendere parole di Giglioli, a un'infantile voglia di «giocare al chi c'è e chi non c'è»; ma perché i giochi vadano davvero avanti e le partite non vengano truccate, è una sfida che resta nostra, e resta inevitabile.