Recensioni / Gli editori con me non guadagnano così sono libero

Non tutti gli scrittori, intellettuali e artisti degli ultimi decenni si sono dannati l' anima per tenere il centro della scena. Alcuni se ne sono addirittura andati dall' Italia, per scelta o per necessità. Altri hanno comunque mantenuto, infra moenia, una posizione defilata: non adeguandosi ai diktat dell' industria culturale; del successo di massa a tutti i costi. E ora che qualcosa finalmente torna a muoversi nelle viscere della società italiana, forse proprio il loro "sguardo laterale" può tornare utile per sondare strade diverse rispetto al modello trionfante. Nel caso di Gianni Celati, il primo dei nostri interlocutori, la recentissima pubblicazione di Conversazioni del vento volatore (Quodlibet Compagnia Extra, pagg. 170, euro 14), rende più facile ripercorrere alcune delle tante tappe di un itinerario sempre all' insegna del nomadismo e della lateralità. Non vedevo Celati da oltre vent' anni, e ora mi accoglie raccontandomi di una recente serata all' istituto psichiatrico Paolo Pini di Milano, dove è stato proiettato il suo film Diol Kadd, sulla vita di un villaggio senegalese a lui molto caro. Così, subito realizzo che la figura del matto è, a tutt' oggi, una costante del suo universo immaginativo. Come lo era già nel libro d' esordio, Comiche, che nasceva per l' appunto dalla riscrittura degli appunti tenuti da un vecchio paziente del manicomio di Pesaro. «Sono un uomo abbastanza contento di stare al mondo e la mia vita non è segnata da particolari disgrazie. Resta il fatto che sì, è vero, i matti me li sento molto vicini. A Imola c' era un bravissimo direttore del manicomio che ogni anno faceva la festa di primavera. Ci andavo sempre, ballavo coi matti e stavo benissimo. In effetti mi trovo più a disagio coi sani di mente». Non c' entrerà anche il desiderio di osservare la realtà da un punto di vista radicalmente diverso da quello abituale? «In Conversazioni del vento volatore, qualcuno ha colto la mia passione per Swift e per "l' alienità". Da giovane, a Londra, campavo lavando i piatti a Leicester Square: un pomeriggio ho trovato su una bancarella La favola della botte e mi sono messo a tradurla. A quei tempi mi pareva che Swift e Philip Dick in qualche modo si incrociassero. Perché se leggi Swift o vedi Blade Runner, in entrambi i casi hai la netta sensazione che questa pacificata idea di un' umanità salda e robusta venga messa a soqquadro in un battibaleno. Forse quel sentimento di "alienità" è nato allora, per trasferirsi poi nelle Comiche. A quei tempi volevo fare il linguista, ma la verità era che leggevo le frasi di quel matto e me lo sentivo fratello». Grazie alle Comiche avviene l' incontro con Italo Calvino, lo scrittore per antonomasia: un uomo centrale nel mondo delle lettere. «Italo con me è stato di una generosità assoluta. Ero un giovane presuntuoso e indisponente come pochi, eppure lui mi concedeva tutto, non so bene perché. L' unica cosa di me che lo faceva veramente imbestialire, quando andavo a trovarlo a Parigi, era che girassi per l' Europa senza avere in macchina una carta geografica». In quegli anni, dal ' 68 al ' 73, assieme a Calvino, Carlo Ginzburg e Guido Neri, progettavate una rivista, che si sarebbe dovuta chiamare Alì Babà, che peraltro non vide mai la luce. Anni di fantasticherie, senza un risultato tangibile, immediato. «Sì, a ripensarci adesso è stupefacente. Eppure che meraviglia quelle confabulazioni senza fine, quel mettere tutto costantemente in discussione. Il mio maestro Enzo Melandri, un formidabile aristotelico da cui andavo a lezione di logica, insegnava proprio questo: a impadronirsi di tutto per poi ricominciare da capo. Criticando le conclusionia cui eri appena pervenuto». Erano gli anni del Celati intellettuale, che a un certo punto però, in America, decide di cambiare strada. Alla parola "intelligenza", d' ora in avanti, sostituirà "campo affettivo". Il paradosso è che quel mutamento avvenga grazie all' incontro con Foucault. «Proprio così. Lo incontrai alla Cornell University, luogo di infervorate discussioni, con abbondanti consumi di LSD e marijuana. Foucault è stato per me una figura importantissima: le sue lezioni davvero aprivano la mente. Ma in quel periodo mi capitò di incontrare anche Derrida, che avrebbe voluto tradurre in Francia La linea e il circolo di Melandri, senza riuscirci a causa dell' avversione di François Wahl, indispettito da un capitolo irriverente nei confronti di Roland Barthes. Bene, durante una lezione di Foucault, io cito un' osservazione di Derrida, il quale, riguardo alla Storia della follia, sosteneva che anche chi parla dei matti come se stesse dalla loro parte, in realtà sfrutta la loro posizione. Non l' avessi mai fatto. Foucault, sprezzante, risponde: " Derrida, ce petit prof de lycée ". La mia ammirazione nei confronti di Foucault non è mai venuta meno, però quella volta ho capito di essere finito in un mondo governato da un agonismo assurdo, esasperato. Tutto quello sgomitare per imporsi: no, non era cosa per me». Non è andata tanto diversamente con l' agonismo dell' industria culturale. «Io ho sempre scritto cose con cui gli editori non hanno fatto una lira. E questo, alla fine, mi ha dato una grande libertà. Sono tra coloro che ancora pensano alla scrittura come a un atto gratuito: si scrive per passare le serate, per coltivare l' interiorità, perché la gratuitàè fonte di contentezza. Invece ora pare che si scriva soltanto per fare colpo sul pubblico, per vendere copie, avvinghiati ai fatti e all' attualità, perdendo così completamente la dimensione avventurosa della scrittura, la sua potenza immaginativa. Vedi, in fondo scrivere racconti, favole, sonetti, è come spedire delle lettere. Anche se mi rendo conto che non è più tanto chiaroa chi queste lettere sono indirizzate. E poi, a ben vedere, anche qui salta fuori un tratto di ferocia. Perché gli autori si moltiplicano, lo spazio è quello che è, e dunque per esistere devi fare fuori qualcun altro: a cominciare dai banchi della libreria. Per questo, quando di recente ho pubblicato da Feltrinelli un libro di sonetti, l' accordo era di non vendere il volume in libreria: lo avrei portato in giro io, regalandolo qua e là. Poi mi sono reso conto che la cosa non funzionava. Perché nel momento in cui regali un libro, è come se quel libro perdesse valore. Soltanto uno su mille, capisce il significato del dono». Basta scorrere la breve nota autobiografica in coda al volume, per capire quanto raminga e inquieta sia stata la sua vita. Spizzico qua e là: in Tunisia a imparare l' arabo, l' insegnamento al Dams di Bologna, in America a scrivere film nati morti, la fuga in Normandia, i documentari in Africa. Dal ' 90 la residenza a Brighton, in Inghilterra. È la tappa finale? «Non credo proprio. Ora, a tratti, coltivo l' idea di tornare in Italia: per rimescolarmi a questo calderone indecifrabile che finalmente si è rimesso in movimento, soprattutto grazie ai giovani. E giusto a proposito di Italia: anni fa feci una bellissima esperienza alla scoperta del nuovo paesaggio italiano in compagnia di un gruppo di fotografi capitanati da Luigi Ghirri. Un viaggio che mi ha insegnato a guardare con stupore il cosiddetto ovvio, il cosiddetto banale, e ad allontanarmi sempre di più dal culto dell' autore imperante in letteratura. Ebbene, alle spalle di quel viaggio c' era una intuizione di Zavattini: prendi una carta geografica, chiudi gli occhi, punta il dito, e ti accorgerai che il luogo prescelto, qualunque esso sia, contiene tutto. Ma proprio tutto. Zavattini la chiamava qualsiasità».