Recensioni / Celati processa i manager dell'editoria che fanno i furbi

Tra i discorsi più in voga, di intellettuali che si rivolgono a intellettuali sostenendo che gli intellettuali non esistono più, ce n’è uno che immancabile suscita il plauso degli intellettuali: la classificazione, appunto degli intellettuali, secondo la specie.
Io mi sono fatto un’idea meno brillante, empirica, terra terra. Che di intellettuali, oggi, ce ne siano di due tipi: quello che ha capito tutto, o che tutto mostra di aver capito; e che quel tutto lo spiega, in sostanza lo giustifica, infine lo conesta. E poi ce n’è un altro, che ostenta invece di non capire un bel niente; e che, evitando di capirli, certi comportamenti li può allontanare da sé con gesto in apparenza istintivo, tirato per le spicce.
Ecco, Gianni Celati - il quale tutto vorrebbe sentirsi dire, credo, meno che «intellettuale» - appartiene a questa seconda specie. Ne è anzi un capostipite. Sentite come affronta un cavallo di battaglia degli intellettuali, la managerializzazione dell’industria editoriale: c’era una volta - non secoli fa - uno «scrivere per qualcosa che urge, non per far piacere agli editori»; poi «sono spuntati i controllori manageriali della letteratura, gli esperti che riscrivono i libri per renderli più vendibili [...], i repertori di frasi pubblicitarie per parlarne, il culto delle graduatorie dei romanzi più venduti»: «I romanzi di successo che i nostri editori smerciano sono l’equivalente dei non-luoghi vacanzieri, luoghi senza memoria, luoghi di sradicamento e disaffezione». Al punto di immaginare «un processo alla corte dell’Aja, dove le anime di questi professionisti dell’editoria saranno imputate di genocidio letterario, e massacro dell’antica traduzione dell’arte verbale nelle nostre terre».

Ma com’è brutale, questo Celati... somiglia sempre più a quello che per molti versi è il suo antipode perfetto, Pasolini... L’intellettuale-che-capiscetutto, invece, di fronte alla «nonlingua» dei non-libri chiamerà in causa almeno il Campo sociale; se è trendy evocherà il Ritorno alla dimensione Epica; se è un giovane di genio, intravedrà inessi il sintomo del Vuoto di una Generazione. Celati no; è empirico, empirico ed eretico: la distruzione della letteratura, molto più semplicemente, è operadi «grandi furbi che hanno speculato senza sosta». In fondo i Grandi Manager altro non sono che Intellettualiche-hanno-capito-tutto - e che l’Hanno Fatto Per Tempo. Cosa toccherebbe fare? «Defurbizzare la letteratura», e poi magari anche «la vita», come predicava Cesare Zavattini (un altro che Non Capiva Nulla e infatti, scandaloso, gridava La veritàaaa).
Non è sempre stato così,Celati. C’è stato un tempo in cui anche lui Capiva Tutto. O almeno tutto leggeva; e tutto postillava, interpretava, sistematizzava. Il libro in cui si può trovare l’esaltante spremuta intellettuale di quel tempo, s’intitola Finzioni occidentali. Celati lo pubblicò nel ‘75; da allora si attende un nuovo libro di saggi del nostro scrittore che la letteratura la capisce più in lungo e in largo:ma quel libro, c’è il caso che non lo vedremo mai. Nel frattempo infatti Celati ha abbandonato la stessa formasaggio: sospettandola forse di essere, di per sé, troppo «furba». Ma questi suoi «parlamenti» sulla letteratura - raccolti con il titoli Conversazioni del vento volatore e occasionati da interviste, seminari, parole al volo che allo stato volante, o «volatore», vogliono restare - sono la lettura più nutriente che si possa immaginare.
In poche righe si condensano ragionamenti su un po’ tutte le questioni che da decenni accompagnano la sua ricerca letteraria (e da ultimo cinematografica): dalla tradizione novellistica alla «visione documentaristica» e al ripensamento che comporta nel concetto di inconscio, sino all’«inversione di ciò che prendiamo per esperienza» (e anche qui si può misurare la sua distanza da un’altra vulgata da intellettuali).
Si capisce subito come la letteratura, qui, sia l’esatto contrario di quella che come tale viene impacchettata dai Grandi Furbi. Parlare di letteratura, per uno come Celati, equivale a un «pensare-immaginare sucome è fatto il mondo»; dare aria alle sue parole, insomma, significa dare aria alla vita. Dopo la tirata formidabile sulla defurbizzazione, con una mossa delle sue Celati cambia discorso: «A parte ciò, vorrei abitare tra i tibetani».
Non è certo un caso se da vent’anni non abita più nellaTerra dei Furbi, Celati;ma dov’è andato non è che le cose vadano poi tanto diversamente. In un altro pezzo geniale sostiene che, malgrado sia in sé «un fenomeno asociale», la letteratura riguarda sempre le «popolazioni»: i «tibetani» di Celati, allora, sono quelli che chiama i «dispersi»; quelli come lui, cioè; quelli che - per loro fortuna - sono sempre Altrove. Quella degli altri è la malinconia, invece, di chi resta qui.