Mai la vita umana è apparsa così protetta, almeno in questa parte di
mondo: i nostri corpi sono curati; niente più guerre, carestie o
epidemie; la felicità stessa somiglia a un dovere. Insomma, il trauma è
scomparso, eppure il nostro linguaggio attinge all'immaginario
traumatico: ci piace immaginarci vittime, tutto diventa «allucinante»,
la più piccola frustrazione è «devastante», se un condominio ha regole
un po' rigide diventa «nazista».Come vi reagisce la letteratura? Questa
la suggestiva idea-forza, e l'interrogativo "militante", di Senza
trauma. Scrittura dell'estremo e narrativa del nuovo millennio di
Daniele Giglioli.
La critica letteraria migliore è quella che attraverso la letteratura ci
parla di altro, di stili e visioni del mondo, di significato
dell'esperienza. Giglioli rivendica la possibilità di trattare i testi
come sintomi, non nell'accezione clinica ma come «un'istanza di verità»,
poiché «ogni interpretazione è sempre un uso». E infatti usa le opere,
con immaginazione sociologica e acume critico, per capire alcuni aspetti
fondamentali della mutazione in corso.
Se oggi rivendichiamo traumi inesistenti (o lontani) perché così ci
illudiamo di recuperare il senso perduto di un'esperienza impoverita, la
nostra narrativa sceglie di «rincarare la dose» e si converte
all'«estremo». Dove per Giglioli l'estremo non è opzione
stilistico-tematica ma una tensione irrisolta, che sempre rinvia al
reale, ovvero a ciò che – lacanianamente – non si può simbolizzare (puro
evento senza senso). La narrativa di genere contrappone cliché a
cliché, estende all'intera storia umana il codice paranoico del
complotto, e così però rivela l'esistenza di una realtà ancor più
insensata. L'autofiction – nella sua ampia costellazione che va da
Saviano a Siti, da Trevi a Nove – punta sull'impudicizia di mettere al
centro l'io dell'autore. Strategie diverse ma accomunate dalla
mescolanza spaesante di realtà e finzione, di letteratura e mondo. Se la
realtà è indistinguibile dal discorso sulla realtà, allora la
letteratura contemporanea porta il gioco all'estremo, esaspera il
trompe-l'oeil (che come la pentola dipinta da Geppetto sulla parete, si
dichiara tale), cura omeopaticamente il male con il male stesso, risolve
tutto in una rappresentazione dai contorni volutamente sfumati nel
mondo vero divenuto favola.
La diagnosi di Giglioli è inappuntabile, mentre la sua pars costruens
assomiglia a un teorema fin troppo concluso, e associa alla «scrittura
dell'estremo» autori molto diversi tra loro. Non è che l'omeopatia e
l'estremo siano l'unica strada percorribile per la letteratura attuale.
Se siamo avvolti da traumi fantasmatici perché giocare al rilancio, e
puntare tutto sull'iperbole?
La letteratura ha a che fare, come sa Giglioli, con una istanza di
verità, benché questa si traduca poi in menzogna e sortilegio verbale.
La sua vera sfida è allora mostrare di nuovo l'esistenza stessa come
trauma (in quanto imperscrutabile), perfino dietro la superficie dei
consumi opulenti. È reale tutto ciò che non è controllabile, come la
bonaccia nella Linea d'ombra di Conrad. L'esperienza è anzitutto
accettare la propria passività di fronte allo scorrere degli eventi. Nei
romanzi di scrittori non "estremisti" come Claudio Piersanti, Elena
Ferrante, Andrea Carraro (non citati) la quotidianità appare increspata
da movimenti disturbanti o improvvise anomalie, l'esperienza più banale
ci dischiude il suo cuore "oscenamente" tragico, il reale si rivela per
ciò che sempre è: irreparabile. Non hanno bisogno di estremizzare nulla.
Eppure ci parlano del trauma ineliminabile che è la condizione umana,
pur dentro l'epoca dell'assenza apparente di trauma.