Recensioni / Riprendere con Celati lo spazio comune

Ci sono due Gianni Celati. II primo è (per usare il molesto gergo calcistico che forse lo farà imbestialire, ma pare si debba) uno dei più grandi scrittori italiani. Ovvero qualcuno che ha trovato un paese tutto suo, una lingua riconoscibile ad apertura di pagina, un complesso di idee immagini ritmi pause e cadenze che lo rendono inconfondibile, altro, impossibile da imitare se non per parodia o pastiche; il tutto sostenuto da una riflessione teorica profonda e coesa come ce ne sono pochi o nulli esempi. È vero che questo sembra contraddire molti degli assunti teorici di Celati medesimo, di cui si trova ampia documentazione nel libro che qui si presenta (Conversazioni col vento volatore, Quodlibet «Compagnia Extra»): che non si è mai un individuo singolo ma un popolo, o comunque il membro di una tribù immaginaria che si aggrega e si riconosce via via che procede il proprio scrivere; che il narrare è sempre «ascolto e visitazione fantastica degli altri», in quanto nasce dall'aver ascoltato i racconti di una «popolazione di individui a cui associarsi anche solo fantasticamente»; che quella dell'individualismo proprietario (di cui fa parte la Mitologia dell'Autore) è la lebbra metafisica che corrode irreparabilmente il nostro tempo; e altro ancora. Ma questo di per sé non farebbe fatto (in ogni artista e anzi in ognuno di noi sono proprio i punti di frattura, le tensioni e non le soluzioni, a costituire il centro vivo di un pensiero e di un'immaginazione), se qui non si innestasse appunto il secondo Celati. Un Celati della conversazione, più che dello scritto, dell'intervento pubblico, che è anche, lo voglia o non lo voglia, una figura guida, un capopopolo, o capotribù, o capo scuola, un ideologo perfino, nella cui opera, lingua, pensiero e anche vezzi, in tanti si riconoscono fino a un grado di identificazione proiettiva impressionante: stessi giri di frase, stessi idoli polemici (uno per tutti: il famoso o famigerato «Entrò Carla» degli Indifferenti di Moravia), trapianto letterale di invenzioni verbali (per esempio la parola «fantasticazioni»), e più in generale una postura, un atteggiamento, una mimica, un sistema prescrittivo del come si deve e non si deve scrivere. Il che configura il paradosso di uno scrittore che, nato e vissuto all'interno di un'ininterrotta battaglia di sganciamento (dalle finzioni dell'Io, dalle pretese disciplinatrici della razionalità utilitaristica, ecc.), finisce per assumere il ruolo di legislatore e principe di una poetica che dice parole di liberazione mentre di fatto opera un processo di assoggettamento al carisma del padre fondatore.

A voler essere superficiali ci si potrebbe accontentare del detto che si nasce incendiari e si muore pompieri – magari nei discepoli, ma il senso del discorso non cambia. O dello sconsolato storicismo assoluto di un Sanguineti secondo il quale ogni avanguardia deve pensarsi fin dalla sua genesi come una futura arte da museo. O del fatto che se i maestri non vengono mangiati in salsa piccante (copyright Giorgio Pasquali e Pier Paolo Pasolini) sono guai. Ma sarebbe ingiusto, ingeneroso e soprattutto cieco. E non solo per il rilievo ovvio ma sacrosanto che Celati pompiere non c'è mai diventato; tutt'altro. Ma perché in questa tensione tra liberazione individuale (degli umori del corpo, delle fantasticherie mattoidi della mente, dei ghiribizzi della lingua) e pratica collettiva si misura tutto il valore di interrogazione politica che l'arte di Celati pone tanto ai lettori quanto agli autori che si mettono nel suo solco.

Quando si parla di politica a proposito di Celati bisogna intendersi. Nulla a che vedere con l'engagement dell'intellettuale, con il dovere del realismo o del reportage, con la prosopopea del coraggioso testimone deciso a dire la verità costi quel che costi. Ma si però con qualcosa che ha profondamente a che vedere con la verità, non foss'altro nella forma della critica spietata che Celati conduce contro la menzogna sociale organizzata, di cui sono sintomo alla stessa stregua tanto la pretesa metafisica della conoscenza oggettiva quanto la letteratura industriale su cui non perde occasione per sparare. Contro di essa, Celati convoca il potere maieutico della fantasia, per fantasia intendendo via Aristotele e Vico qualcosa di intrinsecamente collettivo, pubblico, comune. Alla radice delle fantasie più eterodosse di ogni singolarità c'è sempre un prelievo da, e un ritorno al, comune, all'intelletto comune averroista, evocato nel Vento volatore, il che spiega per inciso l'amore di Celati per due forme così italiane come la novella e il poema cavalleresco, e il disprezzo per il romanzo, con la sua coazione alla razionalizzazione dell'intreccio e alla messa a fuoco di una psicologia individuale. Il punto è però che il comune è uno spazio esaltante ma anche pericoloso. Non è abitato solo da gentili fantasticazioni, ma anche da demoni. Giustamente Celati nota come in molta parte della rinascita del fantastico contemporaneo (Harry Potter, Il Signore degli anelli) la fantasia è evocata come qualcosa di tenebroso, torbido, mostruoso. Ma non lo è per caso. Perché attraverso la fantasia transitano e praticano non solo benevoli sciamani ma anche turpi demagoghi, non solo la liberazione ma il carisma, non solo lo scarto capriccioso ma anche l'assoggettamento alla norma. E se questo fatto, forzando un poco i termini della questione, si spinge fino a lambire la sua stessa opera, non dovremo vedere in ciò una banale contraddizione nei termini del predicare bene e razzolare male, mail segno, limite, il confine, additatoci appunto da quell'opera, del luogo in cui si è spinto ma anche arrestato fino a questo momento il suo e il nostro pensiero. Come si pensa e si fantastica in comune? È sufficiente ritirarsi in piccole tribù di nomadi, in prosecutori del giardino di Epicuro che sfruttano tutti gli spazi interstiziali rimasti disponibili per sottrarsi alla violenza e alla menzogna del potere? Non si è perso qualcosa nel momento in cui si è rinunciato a gettare apertamente in faccia a quel potere il guanto della sfida? E cosa ne è di tutti gli altri, i non salvati, i condannati alla letteratura industriale? Non ci impoverisce tutti il fatto di considerarli perduti per il nostro comune, abbandonandoli senza rimpianti al comune privatizzato da quegli altri? Sono, come si vede, i problemi politici più stringenti della nostra epoca. Sintetizzando, l'idea di esodo che dà il cambio a quella di rivoluzione. Non senza validi motivi: la rivoluzione non ha dato buona prova di sé (l'unica vera rivoluzione che ho visto, scrive Celati nel Vento, è stata quella della Thatcher). Da qui sono nati o rimati Bartleby e Robert Walser e gli strambi e i pascolanti. Il problema è: per quanto ancora? Lo spazio si riduce giorno dopo giorno. Urge timettersi a fantasticare qualche cosa di nuovo, naturalmente in comune.