Recensioni / Scrittori nuovi profeti dell'estremo

Daniele Giglioli ha una conoscenza di prima mano della narrativa contemporanea che segue con intelligenza militante su Alias e Il Sole 24 Ore. Non si potrà dire che il suo ultimo libro, Senza trauma. Scrittura dell'estremo e narrativa del nuovo millennio (Quodiibet, pp. 116, curo 12), non avanzi, sulla letteratura di oggi, un'idea forte, brillante e originale. Come conferma il dibattito seguito sui giornali, in cui sono intervenuti, tra gli altri, Cordelli e Berardinelli, Magrelli e Baudino, Nori e La Porta. Qual è l'idea forte? La convinzione che «il tempo in cui stiamo vivendo possa essere definito come l'epoca del trauma senza trauma; meglio ancora, del trauma dell'assenza di trauma». Giglioli come Scurati - convinto di vivere nell'età della compiuta "inesperienza"» ‑ ne è sicuro: «La realtà si dissolve tra le dita di chiunque voglia raccontarla, stretta com'è tra la Scilla del relativismo (...) e la Cariddi del cliché, del luogo comune e della ripetizione». La causa starebbe soprattutto nella televisione, «il nostro Vietnam»: «Un bombardamento di immagini che non generano esperienza, ma la requisiscono, rendendola impossibile da descrivere senza il ricorso a immagini che nulla hanno a che fare con l'esistenza quotidiana». Di qui, «per reazione», la nascita d'una letteratura quella rappresentativa dello spirito del tempo ‑ che «rechi testimonianza di ciò attraverso il ricorso a una postura condivisa che chiameremo scrittura dell'estremo». Ecco: là dove la vita sembra diventata anonima e insignificante, appunto «senza traumi», la letteratura interviene in forma vicaria, con sempre più enfasi e efferatezza, trasformando l'eccezione l’eccezione della violenza in regola permanente, a simulare quel male e quel dolore che non siamo più in grado di vivere: «Senza il linguaggio del trauma (…) non abbiamo più niente da dire su ciò che ci circonda». E allora: qual è la letteratura che meglio esprimerebbe la tendenza profonda della nostra epoca? Quella che ha fissato le forche caudine sotto cui non possiamo non passare se vogliamo uscire da questa condizione di paralisi storica e gnoseologica? Anche su questo Giglioli non ha dubbi: da una parte la narrativa di genere (giallo, noir, fantascienza, romanzo storico), cui corrisponderebbero, col massimo di rappresentatività, i nomi di De Cataldo, De Michele, Ammaniti, Camilleri, Lucarelli, Evangelisti, Wu Ming e perfino Scurati; dall’altra, il vastissimo territorio dell’autofiction (di gran lunga più importante, come dimostra il numero delle pagine dedicatogli) tra memoria e autobiografia, reportage e autofinzione, ma anche saggistica a dominante narrativa, coi nomi di Franchini, Saviano, Janeczek, Trevi, Siti, Moresco, Pecoraro, Nove e Genna, ancora Scurati. Tutto qui ‑autori e testi - viene interpretato come «sintomo», in contrapposizione alla tirannia menzognera del «feticcio», nella convinzione –molto psicopolitica- che «dove il feticcio nasconde, il sintomo rivela». Ecco perché proprio la letteratura di genere e l'autofiction, che hanno rinunciato ad ammaestrarci sul mondo, e che del mondo ci restituiscono invece la bidimensionalità acritica, da senso comune, rappresenterebbero la prima presa d'atto in direzione dell'emancipazione della vita dalla capsula alienata e menzognera dell'ideologia dominante, emancipazione cui Giglioli non ha mai rinunciato. Per un discorso che resta sostanzialmente socioantropologico e di critica della cultura, rifiutando qualsiasi dignità al giudizio divalore e al concetto di canone: «Chi è alla ricerca di un canone, di una classifica o di una tabellina, è pregato di lasciare immediatamente queste pagine». Quale rischi ‑anche gravi corre questo discorso? Prima di tutto quello di indifferenziare testi e autori. Siamo sicuri che, tra i giallisti, il politicamente corretto Camilleri sia uguale, quanto a scrittura dell'estremo, all'inventivo e metafisico ‑lui si davvero controstorico‑ Eraldo Baldini di Mal'aria, qui nemmeno citato? E poi: si può davvero sacrificare l'estetica alla critica della cultura, col risultato di non capire più niente, quanto a statuto letterario, della differenza trail dotatissimo Franchini e Genna? Ho l'impressione che la descrittività di Giglioli celi, in realtà, il più autoritario dei canoni, che, denegato a parole, viene surrettiziamente interpolato. Come si può dire che questi sono gli scrittori più rappresentativi della nostra epoca ‑rispetto alla verità storica‑ senza di fatto sancirne l'eccellenza? Mi riesce molto difficile pensare che un De Michele (dico un De Michele Girolamo), valga di più di Arminio Abate e Abbate, Albinati Doninelli o Veronesi, Pascale Picca o ‑ Piperno, Montesano, Mazzucco Carraro o Piersanti, per citare alcuni che non sono nemmeno nominati nel libro. È bene che Giglioli esca più responsabilmente allo scoperto sul piano dei valori: altrimenti sarebbe solo la sua a essere una critica senza traumi.