Recensioni / L'esperienza e il suo valore conoscitivo. Ma cosa succede se viene a mancare?

Dalla Grecia antica a gran parte del novecento la filosofia occidentale ha attribuito all’esperienza un valore conoscitivo primario. «Seppure ogni nostra conoscenza derivi dall’esperienza» esordiva Kant nella sua Critica della ragion pura «non perciò essa deriva tutta dall’esperienza». Cartesio da parte sua aveva già radicalizzato il valore esperienziale fondando la consapevolezza del proprio essere sulla facoltà del pensiero. L’esperienza del pensare era azione determinante, prova di un’indagine logica sull’esistenza delle cose del mondo. È la psicanalisi ad aver dato alla stessa un significato non totalmente accessibile dalla ragione. L’esperienza è in sostanza tutto ciò che si arrovella intorno ad un trauma che l’Io ha subito e che custodisce nell’inconscio ma che pure determina ogni suo comportamento e relazione. Ma cosa succede se quel valore primario, che è appunto l’esperienza, viene a mancare?
Daniele Giglioli compie al riguardo, in Senza trauma. Scritture dell’estremo e narrativa del nuovo millennio (Quodlibet), un’analisi destinata a diventare un punto di riferimento imprescindibile nella critica letteraria contemporanea. Scrive Giglioli: «Trauma, ovvero esperienza veramente vissuta, significativa, degna di essere trasmessa, commentata, condivisa ... Mai la vita umana è stata così protetta, tutelata, santificata a valore assoluto ... Non vivendo traumi, li immaginiamo ovunque. È come se fossimo così traumatizzati dall’assenza di traumi da doverci costringere a inseguirli ansiosamente in ogni situazione immaginaria possibile».
Se il problema individuato da Giglioli corrispondesse al vero, l’interrogativo si dilaterebbe. Cosa c’è da conoscere, dentro quale istituto di conoscenza entra la nostra vita se a mancarci è il valore primario sul quale ogni conoscenza comincia la sua indagine? La letteratura (il saggio si concentra specificamente su quella italiana mettendo sotto l’esame del discorso le opere di Trevi, Siti, De Cataldo, Genna, Saviano, tanto per citarne alcuni) ha risposto, secondo il critico, con una scrittura dell’estremo – divisa tra letteratura di genere e autofiction –, che è poi «il tentativo di rimotivare a posteriori i segni vuoti in cui ci rispecchiamo – con il rischio costante di rimanere imprigionati nello specchio». Ciò che la letteratura sta conoscendo e raccontando è nulla, poiché il soggetto è ormai paralizzato nei comfort di una vita continuamente respinta fuori dai territori del trauma, fuori quindi, da ciò che costituisce un significato possibile della nostra vita. Così, il celebre precetto hemingwaiano dello scrivere solo di ciò di cui si è fatto esperienza cede oggi all’insensatezza. Cosa è possibile scrivere se l’esistenza di chi racconta è un galleggiamento nel vuoto? Giglioli risponde analizzando il «sintomo» nell’opera di Aldo Nove La vita oscena (e oscena va intesa, secondo il critico, come «fuori dalla scena», ovvero non rappresentabile): «Non per rappresentare meglio, non per compensare ma per rincarare il suo inaggirabile difetto nel dar conto dell’esperienza vissuta. Per evitare che la vita vissuta si trasformi completamente in vita scritta ... Perché se così fosse vorrebbe dire che il trauma è stato riassorbito, che se ne può parlare ... vorrebbe dire che è possibile liberarsene».
E da un vuoto è possibile liberarsi? La risposta di Giglioli non è per nulla consolatoria. Poiché l’esperienza è assente la sola cosa rappresentabile è appunto la verità di questa assenza che la scrittura dell’estremo si è incaricata di raccontare. Una verità che il critico interpreta, a ben vedere, in senso oggettivo. Insomma, se la sola verità verificabile è un vuoto, inutile dare alla stessa un significato salvifico, liberatorio, conoscitivo. Significherebbe altrimenti negare che ciò che siamo divenuti corrisponde al non luogo dentro cui la nostra vita è ormai paralizzata. Se la soluzione è continuare a testimoniare quel vuoto, il rischio è che si escluda il racconto di ciò che in ogni vita sfugge al nostro reale controllo, che è ingovernabile, sia pure in una vita priva di trauma. Parlo di quella letteratura che crede ancora al suo potere conoscitivo, perché compie un gesto di fede verso ciò che appartiene all’ambito del mistero, ma che pure urta ogni vita e la modifica – così com’è dolorosamente raccontato nei libri, che so?, di Aurelio Picca, Luca Doninelli, Andrea Di Consoli, autori che Giglioli, per giuste ragioni di coerenza, non ha potuto usare come sintomi del suo discorso.