Un saggio del grande critico
scritto nel 1911 e tradotto da Quodlibet
Ai manichini di re e di uomini illustri si aggiungono i grandi ladri,
gli assassini, le creature mostruose, mentre lentamente si biforca la
strada fra arte e artigianato La questione sembrerebbe fermarsi alla
storia di un materiale plastico, ma si estende invece alla necessità o
meno di distinguere tra ciò che è arte e ciò che non lo è.
Sarà capitato a tutti di ricordare, fra
gli episodi più tremendi della propria infanzia, una gita scolastica in
qualche museo delle cere. Luoghi di vellutini e stucchi dorati, i vari
gabinetti di Mme Tussaud europei sono da anni meta di scolaresche
stanche e gruppi di cinquantenni in vacanza aziendale. A Parigi, il
rituale pagano del turismo kitsch segue sempre, nell'ordine: Tour
Eiffel, quadri in stile impressionista comprati a Montmartre, la tomba
di Baudelaire a Montparnasse su cui sostare in rispettoso silenzio e,
naturalmente, il Museo delle cere Alfred Grévin. Pagare il biglietto per
guardare Marat morto nella sua vasca da bagno sembrerebbe configurare
una delle situazioni più imbarazzanti in cui ci si possa trovare
superata l'adolescenza, ma non sempre è stato così. La ceroplastica,
l'uso di modellare statue in cera, ornandole con stoffe e capelli veri,
ha in realtà una storia lunghissima e natali aristocratici. Ce lo
ricorda oggi la traduzione italiana per Quodlibet di un testo singolare,
Storia del ritratto in cera, scritto nel 1911 da Julius von Schlosser
(traduzione e cura di Pietro Conte con un saggio introduttivo di Georges
Didi-Huberman, pp. 212, euro 24).
Direttore delle Collezioni di
Scultura e Arti applicate del Kunsthistorisches Museum di Vienna,
contemporaneo di Warburg e maestro, tra gli altri, di Ernst Gombrich,
Hans Sedlmayr e Fritz Saxl, Schlosser è stato uno dei rappresentanti più
lucidi e autorevoli della Scuola di Vienna. I suoi testi sono ancora
oggi uno strumento indispensabile per la conoscenza delle fonti della
storia dell'arte moderna. Tra questi, la Storia del ritratto in cera,
potrebbe sembrare a prima vista un'opera minore. La scelta di trattare
un tema poco frequentato e di dedicare una parte della propria ricerca a
qualcosa che non si può neppure chiamare «genere» (Schlosser stesso
definisce la ceroplastica un «preparato metodologico») potrebbe essere
facilmente classificata come divertissement erudito piuttosto che come
operazione critica nel senso più alto del termine.
In realtà, questo
saggio rappresenta ben più della semplice storia di un materiale
plastico, e di questioni sul tavolo sembra porne parecchie. Prima tra
tutte, la necessità o meno di una distinzione tra arte e non arte, e
conseguentemente, come sottolinea Pietro Conte nella sua postfazione, il
problema della «fattibilità di una storia dell'arte, cioè di una
restituzione linguistica di un percorso, o se si preferisce di uno
sviluppo, che linguistico non è». La ceroplastica è una forma artistica?
I volti immoti dei re che ci fissano dalle teche della
Nationalbibliothek di Vienna sono arte? Sono giudicabili
(classificabili) secondo parametri estetici? Schlosser ribalta il
problema utilizzando la cera, materiale metamorfico per eccellenza, come
emblema privilegiato per un vero e proprio mutamento di orizzonte
critico. All'interno del testo, non è tanto la validità estetica del
manufatto in sé a interessargli, quanto piuttosto l'efficacia
antropologica dell'immagine che questo manufatto racchiude, impressa sul
suo corpo molle. La storia che Schlosser costruisce intorno a questi
busti ingialliti dal tempo è infatti una storia antropologica ancor
prima che estetica. Una storia fatta di echi, di immagini che ritornano a
distanza di secoli, intatte, sempre uguali, perché intatto e sempre
uguale è il rapporto dell'uomo con la morte e con il divino. Nate come
calchi funebri, le maschere di cera, «più vere del vero», rappresentano
il grado zero della percezione psicologica del ritratto come commistione
tra immagine e vita. Non a caso pratiche come bruciare in effigie, o
come l'envoultement (equivalente esoterico europeo del Voodoo) sono
sopravvissute fino alle soglie della nostra modernità sottolineando, con
brutale evidenza, l'idea di uno strettissimo vincolo iconico tra corpo e
immagine. Il calco funebre equivale in maniera neppure tanto mediata al
volto che stava sotto di esso. Corpo di carne e corpo di cera sono il
recto e il verso di un'unica condizione fusionale e magica. Io sono la
mia cera, o meglio, la mia cera non è solo impronta, diretta emanazione,
ma è il mio volto stesso.
Da qui, nelle cerimonie funebri romane,
l'uso di nascondere al pubblico il cadavere in disfacimento
sostituendolo con un fantoccio in cera in atteggiamento dormiente. Da
qui, la prassi di far seguire il feretro da busti (o manichini) in cera
raffiguranti gli antenati eccellenti del morto e l'abitudine di esporre
questi stessi busti nell'atrio delle abitazioni patrizie a proteggere
gli abitanti della casa e a ricordarne, al visitatore, i natali
illustri. Da qui, nella Francia e nell'Inghilterra medioevali, la
consuetudine di sostituire il cadavere dei re con una statua in cera per
l'estremo omaggio dei sudditi, o l'uso votivo nelle chiese italiane
rinascimentali di offrire in cera l'esatto peso (e l'esatta forma del
proprio corpo) per ricavarne in cambio guarigione e salvezza.
Come
si può facilmente vedere, la Storia del ritratto in cera, è la storia
della ripetizione di un gesto sempre uguale, o meglio del continuo
ritorno (Schlosser utilizza il termine survival, mutuandolo da Tylor) di
uno stesso elemento. Un concetto non molto dissimile dal Nachleben
warburghiano (e dalla survivance di Didi-Huberman, che non a caso firma
un ampio saggio introduttivo a questa edizione italiana del testo). Il
ritratto in cera sopravvive, ritorna tra le pieghe del tempo, seguendo
un percorso accidentato, non lineare, riemergendo dopo secoli di ombre,
anche mutando di segno. In epoca post-rivoluzionaria, con la progressiva
polverizzazione di ogni tipo di committenza aristocratica, la
ceroplastica ne segue il destino, sporcando la nobiltà del proprio
tratto nelle fiere di provincia e nei gabinetti anatomici. Ai manichini
di re e di uomini illustri si aggiungono i grandi ladri, gli assassini,
le creature anatomicamente mostruose, mentre lentamente si biforca la
strada tra arte e artigianato, tra ciò che può e ciò che non può
rientrare a pieno titolo in quella nuova enciclopedia del gusto di
matrice classicista che della «eccessiva naturalità», degli occhi di
vetro e dei capelli posticci dei busti in cera non saprà proprio che
farsene.
Ma sebbene declassata (o meglio, forse proprio in ragione
del suo declassamento), ridotta a materiale di ripiego per gite
scolastiche in giorni di pioggia, la cera rivela ancora adesso la sua
potenza di traccia sopravvivente, prodotto di una temporalità sintetica e
non fattuale, non orientata. Elementi di confine, perturbanti nel loro
eccesso di somiglianza con la vita, ancora oggi i sorrisi immobili di
Madonna o Michael Jackson del Musée Grévin conservano nel proprio
involucro la traccia mnestica delle prime maschere funebri. Sono il
ricordo del manichino di Cesare, esposto con tutte le ferite impresse e
bene aperte di fronte al popolo romano. Sono la memoria di innumerevoli
re, vescovi, santi anneriti dal fumo delle torce e consumati dalla
devozione dei fedeli. Veri e propri convitati di cera al banchetto senza
fine dell'uomo con la propria storia.