Recensioni / Somiglianza per eccesso

Viene finalmente tradotto in italiano il saggio di Julius von Schlosser, Storia del ritratto in cera a cura di Pietro Conte (Macerata, Quodlibet, 2011, pagine 232, euro 24), pubblicato per la prima volta nel 1911. Lo storico dell’arte della Scuola di Vienna ripercorre, isolando alcuni momenti fondamentali, l’affascinante e sfortunata parabola della ceroplastica: a Schlosser, infatti, nei primi anni del Novecento, la scultura in cera sembrava, da un lato, poter vantare un «passato glorioso», dall’altro, sopravvivere solamente nelle fiere e nelle botteghe di sarti e barbieri.
La lunga panoramica prende le mosse dal mondo antico: l’autore si concentra sul ruolo svolto dalla cera nella rappresentazione degli antenati e nei contesti funerari. Si va dalla descrizione delle maschere rinvenute nella necropoli di Cuma a quella dell’effigie di Cesare, che, secondo lo storico greco Appiano, fu mostrata durante i funerali del dittatore al posto del cadavere, disteso nel cataletto. La statua, attraverso un complesso meccanismo, poteva ruotare su se stessa: il popolo romano che assisteva alle esequie rimase talmente colpito dalla sua verosimiglianza — erano stati addirittura riprodotti i segni delle ferite causate dalle ventitré coltellate inferte dai congiurati — da commuoversi e decidere di appiccare il fuoco al luogo dell’assassinio.
Il ricorso all’effigie accompagna anche il funerale di Augusto e i riti post mortem in onore dell’imp eratore Pertinace organizzati da Settimio Severo, per poi fare la sua comparsa in occasione dell’ap oteosi di quest’ultimo. Seppur in forme diverse, torna nelle cerimonie funebri dei re francesi e inglesi tra Quattrocento e Cinquecento. La reazione dei romani di fronte al manichino ruotante di Cesare ricorda, nonostante le ovvie differenze, il dolore provato da Cristina di Lorena dinanzi al busto a grandezza naturale del figlio, Cosimo II de’ Medici, opera dello scultore carrarese Pietro Tacca. Stando al racconto tramandatoci da Filippo Baldinucci, Cristina, ancora affranta per la dipartita del granduca di Toscana, avvenuta nel 1621, non poté sostenere la vista della statua, che era persino arricchita da barba, ciglia e capelli veri, nonché occhi di cristallo.
La «somiglianza per eccesso» cui la cera si presta ha, dunque, spesso provocato un senso di disagio e di disorientamento, tanto tra i semplici spettatori quanto tra gli storici e i critici d’arte. Come giustamente nota Georges Didi-Huberman, in un suggestivo saggio che apre il volume di Schlosser, il naturalismo e il realismo eccessivi, uniti alla facilità d’alterazione cui vanno incontro le opere in cera, hanno senza dubbio contribuito a determinare l’e m a rg i n a - zione dal campo artistico di un materiale «esteticamente e psicologicamente viscoso», col tempo relegato tra le tecniche artigianali.
Per l’età medievale, Schlosser si sofferma sulla pratica delle offerte votive, in particolare sull’esempio della Santissima Annunziata di Firenze — già studiata da Aby Warburg — all’interno della quale era raccolta un’enorme quantità di «boti», vale a dire ex voto realizzati dai ceraioli della città. Ben presto il loro numero crebbe a dismisura, tanto da rappresentare un pericolo per l’incolumità dei fedeli: le offerte, infatti, avevano ormai invaso interamente la chiesa trovando posto addirittura tra le travi del soffitto. Poiché tra il XVII e il XVIII secolo la ricchissima collezione andò perduta, Schlosser propone ai lettori diverse alternative per farsi un’idea di come potesse apparire questo straordinario «museo di storia del ritratto»: il santuario di Santa Maria delle Grazie, nei pressi di Mantova, in cui erano accolte statue in cera e cartapesta, e quello bavarese di Vierzehnheiligen, che ospitava alcune riproduzioni a grandezza naturale.
In epoca moderna, mentre prosegue l’uso della ceroplastica in ambito religioso e di corte, oltre che funerario, come è il caso della raffigurazione di bambini morti prematuramente, si registrano un’evidente «democratizzazione» del fenomeno e alcuni sviluppi inediti: sorgono i primi gabinetti di cere, tra cui quelli aperti da Antoine Benoist e Josef Müller, e vengono realizzati modelli anatomici per le scuole di medicina.
Ormai, però, stavano per intervenire mutamenti decisivi: secondo l’autore, con l’affermarsi della riflessione estetica tedesca nella prima metà dell’O ttocento, venne dato finalmente corso alla condanna a morte da tempo emessa contro la ceroplastica. Già dal secolo precedente, si era assistito a un progressivo declassamento delle opere in cera, motivato soprattutto da una negazione radicale del loro valore artistico. Tuttavia, come sostiene Didi-Huberman proseguendo il discorso di Schlosser, di lì a poco si sarebbe verificata una reazione contro quel contesto triviale e d’intrattenimento, nei cui angusti confini era stata costretta la scultura in cera. Grazie alla versatilità di artisti quali Edgar Degas e Medardo Rosso, questo materiale per natura sfuggente sarebbe riuscito a sopravvivere alla sua stessa messa al bando e a presentarsi, così, rinnovato, nelle forme e negli intenti, alla prova dell’arte contemporanea.