Recensioni / Bottega oscura

I sogni sono veri quanto la carne. Lo sanno tutti, ma ammetterlo, cancellando con un solo colpo di tagliacarte la realtà e la sfera eretica e santa dell'inconscio, sarebbe terrificante come svegliarsi ogni mattina in un campo di concentramento. Il diario dei 124 sogni trascritti da Georges Perec tra il 1968 e il 1972 (tradotti da Ferdinando Amigoni), è ambientato in quel mondo, che è poi lo stesso mondo dell'arresto di K. (non è forse Il processo un diario di sogni?), lo stesso mondo dei reportage evangelici e lo stesso mondo in cui si svolge, si è svolta e si svolgerà ogni letteratura possibile: «Siamo un gruppo. La polizia ci arresta una prima volta, poi una seconda (ma sono obbligati a liberarci) e una terza nel corso della quale l'impunità su cui facciamo affidamento non funziona più». Nessun dubbio: l'esigenza di produrre lavoro onirico è definitivamente equivalente all'esigenza di creare narrazione. Come annota Roger Bastide: «Se ci si mette a scrivere i propri sogni per dei lettori, si fa della notte una bottega aperta a una clientela, e non una camera chiusa».
Perec racconta la sua sapienza notturna con uno stile secco, lo stile che usa quando non cuce geniali e iperbolici grovigli romanzeschi, ma tratta faccende autobiografiche. Temi cari al Perec onirico esattamente come al Perec diurno: ingenti sensi di colpa, confusioni di lettere e parole (come il sogno su S\Z di Barthes ritrovato in una libreria come romanzo scritto da un'amica), oggetti che si animano e cambiano dimensioni col cambiare del personaggio. Dal diario emerge un temperamento ideale del sogno: in vita onirica ci si comporta in maniera esemplare, raramente si rimpiange qualcosa o non si fa quel che si vuole (come nel caso di Percival e del Santo Graal). Solo dal verosimile sa nascere l'inquietante: «Un giorno le dirò che l'abbandono. Lei chiamerà quasi immediatamente sua figlia al telefono per dirle che non andrà a Dampierre. Durante la conversazione telefonica, il suo bel viso si decomporrà».
Fare la lista dei motivi per cui il mondo onirico è scomodo per il mondo che si ritiene reale, sarebbe un compito interminabile, stancante, e probabilmente inutile. Ma resta che il sogno fa terrore come fa meraviglia. Ed è questo legame indissolubile che rischia di annullare le differenze tra detenuti e magistrati, immondizia e hotel di lusso, tribunali e teatri. Come scrive Perec: «Mi raccontano che F. ha delle noie: ha cagato davanti a un monumento pubblico; bisogna che io testimoni che ho assistito alla scena e che non l’ho visto. F. arriva scortato da due sbirri. Spiego o tento spiegare che non posso rendere questa testimonianza. Recito in una commedia, ma devo anche presentare l’attore alle autorità. Purtroppo però il sindaco è rimbecillito: faccio capire a gesti che deve parlare il suo vicino di tavola: mentre il vero sindaco tace, il falso fa un discorso che imita alla perfezione quelli del vero sindaco».
Perec lo sa che i sogni sono veri come la carne. Lo dimostra scrivendo il suo diario senza acuti filosofici (come fa per esempio Adorno), ma scegliendo parole atone quanto preoccupate. Il sogno preoccupa perché è territorio di quell’indifferenza che ogni società deve temere, se vuole sopravvivere; di quell’indifferenza che ogni individuo deve ammettere, per essere onesto. Ecco perché, senza cedere né ai pericoli della conservazione a oltranza né a quelli della rivoluzione impetuosa, un pochino alla volta, i sogni nella realtà bisognerà ficcarli dall’interno. Ma per farlo, dovremo rinunciare sia al fascino esclusivo della sapienza notturna, sia alla noia rassicurante del giorno.