Gabriele Pedullà ha lanciato da queste pagine il tema della latitanza
dello "stile" dalla narrativa italiana contemporanea, provando a
localizzarne l'origine o l'effetto in un doppio deficit di
consapevolezza estetica da parte tanto degli scrittori (o scriventi, per
recuperare una efficace distinzione di Luigi Malerba) quanto dei
critici, nella loro quasi totalità maggiormente propensi a
considerazioni di volta in volta sociologiche, storiche, ideologiche,
politiche eccetera (Daniele Giglioli parla di «sintomi», nel suo recente
Senza trauma, contrapponendoli, via iek, ai «feticci», ovverosia alla
persistenza e valutazione delle opere in un senso monumentale).
Lo
stile, a dirla con l'uso tradizionale della categoria, è una misura di
coerenza propria o rispetto al genere prescelto (comico, tragico,
elegiaco, nella classica separazione) ma se si vuole provare ad
aggiornarla, tale categoria, si dovrà ripartire da quegli autori del
Novecento (non solo italiano) che dell'assenza di stile (ma già, teste
Auerbach, della mescidanza) hanno fatto, significativamente, programma
di poetica, da Beckett a Sanguineti: quest'ultimo chiudeva una poesia di
Postkarten col dichiarato impulso a violare continuamente una propria
ineludibile maniera e, insieme, quella sorta di luogo comune mondano che
è lo scrivere o il comportarsi bene: «Oggi il mio stile è non avere
stile». Viceversa i romanzi contemporanei, così poco debitori alle
avanguardie e in generale a un uso spregiudicato e "sabotatore" della
lingua uno stile, effettivamente, ce l'hanno, sia pur piatto e
monocorde: è nella gran parte dei casi lo stile precotto della fiction o
dell'autofiction, del romanzo apocalittico o post-apocalittico, del
noir, del poliziesco. Uno dei "casi" letterari della passata stagione,
Elisabeth, di Paolo Sortino, ha uno stile "da thriller" e dunque ha uno
stile, e ne ha un altro, quello dell'entertainment delle serie
televisive, il recente e non riuscitissimo Libertà del pure altrove (ne Le correzioni, ad esempio) magistrale Franzen.
Ciò che manca ai romanzi nostrani è, allora, più propriamente la lingua, che è dallo stile differente, pure se a esso inevitabilmente connessa: non si ripeteranno nozioni abituali per teorici della letteratura, linguisti e post-strutturalisti, andando a distinguere il codice convenzionale di espressione dalle sue varianti diafasiche o dal suo inveramento individuale. La differenza tra la lingua che si parla al bar e quella che parla la letteratura è, per dirla in modo semplice, una differenza di natura prevalentemente funzionale: la lingua non serve, avrebbe detto Lacan, solo a trasferire informazioni, ma a godere delle cose, o a soffrirne, a illuminarle, o velarle, smontarle, interrogarle, corromperle, infettarle. La lingua è allora il vero «sintomo» dell'opera, nella misura in cui essa è palpabile: come il medico tocca il polso del paziente e diagnostica il male, se non la cura, apriamo un libro e ne sentiamo la lingua, prima di apprezzarne la tenuta narrativa o la costruzione dei personaggi e della trama. La materia prima, e insieme l'aura mai perduta, della vera opera d'arte, a dispetto e contro ogni serialità e riproducibilità dominante.