Recensioni / Latino, scacchi e scherma

Nella sua introduzione a una pregevole registrazione di qualche anno fa (Giacinto Scelsi, The Complete Works for clarinet, CPO Radio Bremen, 1997), il critico Wolfgang Thein rilevava malinconico come gli aspiranti esegeti di vita e opere di Giacinto Scelsi dovessero concentrarsi sulla seconda a causa della sostanziale mancanza d’informazioni riguardo alla prima. Bene, la meritoria pubblicazione da parte di Quodlibet della sorprendente opera qui in discorso ovvia finalmente a molte delle lacune appena richiamate: per metà divagante autobiografia, per l’altra metà poema astrale, Il Sogno 101 consente infatti di studiare per così dire dall’interno numerosi aspetti della vita di uno dei più importanti compositori musicali del secolo scorso, negli ultimi anni al centro di una vera e propria riscoperta a livello internazionale, dopo decenni di culto profondo ma piuttosto appartato. Opera sorprendente, si diceva, perché il materiale che la costituisce – trascrizione di una lunga registrazione vocale, realizzata sotto condizione che non fosse pubblicata per almeno quindici anni dalla morte dell’autore – offre una mole notevole di dati, riflessioni, chiarimenti rispetto alla traiettoria esistenziale di Scelsi, scoccandola però da un arco narrativo estremamente complesso e sfuggente, retto da continui richiami più o meno espliciti alla mistica indiana, oltre a varie tradizioni esoteriche, di cui l’artista era un appassionato cultore. Se, poi, qualcuno volesse impiegare tale scritto per illuminare l’opera musicale, rischierebbe di andare incontro a cocenti delusioni: il fluviale monologo, infatti, è tutto concentrato sull’esistenza dell’uomo sin nei suoi dettagli più minuti (esemplare al riguardo la sterminata rassegna, ai limiti dell’epopea tragicomica, di medici e rimedi sperimentali per risolvere un ricorrente problema di affaticamento della vista), perlopiù con un tono ironico e leggero che ben poco pare accordarsi alla profonda serietà generalmente ascritta al compositore. Vi sono, è vero, passaggi ricchi di folgoranti intuizioni musicali – è il caso, ad esempio, delle considerazioni rese proprio all’inizio della prima parte sulla centralità del suono rispetto alla sua organizzazione, con una netta contrapposizione in tal senso tra tradizioni orientali e occidentali, o, ancora, delle affermazioni rese a proposito della forza sonora come potenza creatrice primaria, “giacché l’intero universo non è che una unità di vibrazione” – ma più si prosegue nella lettura, più conviene lasciarsi semplicemente condurre dall’affabulazione dell’opera senza avanzare autonome pretese intellettuali, godendo così appieno della trascinante freschezza di una narrazione che ha il ritmo, l’ambientazione e lo stile d’altri tempi. In effetti, la vita di Giacinto Scelsi assai si presta a tratti romanzeschi ormai lontanissimi dalla sensibilità contemporanea. Nato a La Spezia nel 1905 e morto a Roma nel 1988, Scelsi discende da una famiglia di antichissimo lignaggio, riceve un’educazione risolutamente privata a base di latino, scacchi e scherma impartita in un remoto castello irpino, conosce il mondo fluttuante dell’ultima nobiltà italiana ma presto se ne distacca per approfondire la propria formazione musicale da autodidatta con sempre più frequenti soggiorni all’estero, soprattutto Parigi, dove, oltre a traversare un mondo dorato di feste e piaceri, entra in contatto con molta grande intelligenza del Novecento, sempre prediligendone gli esponenti più esoterici, diagonali (e un plauso va qui ai curatori dell’edizione, ricca di note estremamente utili per disporre al riguardo di una cornice informativa altrimenti ben poco agevole da formare). La parte più dichiaratamente autobiografica del libro racconta dunque una miriade di avventure personali, spesso estremamente divertenti, molte volte illuminate da fulminee quanto all’apparenza svagate riflessioni di portata universale, capaci di spaziare dalle origini spirituali delle guerre all’intensità delle diverse forme d’arte nella storia umana, dai processi di reincarnazione cui ogni essere va incontro alle capacità dei veri artisti d’intermediare mondi diversi e paralleli.
La seconda parte dell’opera, come già anticipato, è costituita invece da un lungo poema, intitolato Il ritorno e composto in versi liberi, dove Scelsi si lancia nella vertiginosa immaginazione/trascrizione di quella che considera l’autobiografia della sua prossima incarnazione. Qui, liberatosi anche degli ultimi e più riconoscibili cardini formali, in cui ancora si muove nella prima parte, il verbo aspira a farsi puro veicolo di continue illuminazioni personali. Si aprono così viste scoscese sulla personalità di un artista che se, come dichiara nel testo, ha attraversato il proprio tempo nella piena consapevolezza dell’essere soltanto di passaggio, non per questo ha mancato di lasciare una traccia estremamente significativa dietro di sé.