Recensioni / Appunti di poesia. Un manierista, un brechtiano, tre meneghini

Di Franco Buffoni mi piacerebbe dire che è "il più gran fabbro". Poi, ricordan­domi che tale era già Pound, almeno agli occhi di Eliot, mi contenterei di dire che è un "gran fabbro". "Gran fabbro" di poesia, anche lui. Forse, oggi, nessuno in Italia dedica alla poesia, al verso, la stessa molteplice, operosa e fruttuosa attività di Franco Buffoni. Poeta in pro­prio ma anche, come dire, per interpo­sta persona. Docente all'Università di Cassino, presso il Laboratorio di comparatistica di quel Dipartimento di linguistica, vi dirige la rivista semestrale "Tratti", che ci offre esplorazioni appro­fondite in territori lontani e difficili; ma dirige anche una seconda, più snella ri­vista, "Testo a fronte", probabilmente la più autorevole e specializzata nell'ar­dua scienza (o arte) del tradurre. E ro­busto traduttore è lui stesso, in partico­lare dall'inglese.

È fatale, chiunque si occupi di poesia prima o poi si imbatterà in questo "mi­glior fabbro". L'apparizione di un suo libro non può dunque non richiamare l'attenzione, perché sicuramente esso costituisce il nuovo capitolo di un per­corso complesso e articolato. Attenti dunque a non perderci la sua più recen­te raccolta, che al poetare come artigia­nato (da autentico "fabbro") si richia­ma nel titolo ‑ "Del maestro in bottega" ‑come anche nella struttura: versi "in proprio" nella prima parte; commenti, delucidazioni, tessiture, insomma le fa­ville del maglio nella seconda. Presen­tandolo, Giuliano Manacorda ha pun­tato (se ben ricordiamo) sulle evocazioni autobiografiche di questi versi. A me sembra che il richiamo non sia, nel caso specifico, particolarmente centrato: Buf­foni ci appare qui un estremista del manierismo contemporaneo. I getti e schizzi di entusiasmo lirico che prorom­pono oltre la partitura non traggano in inganno: la "cifra" complessiva è di un esatto e controllato manierismo, culmi­ne supremo delle astuzie e risorse della modernità da cui siamo avviluppati. Buffoni gioca con l'archetto linguistico, e si permette deliziose incursioni nel­l'imitazione o ricreazione delle più sva­riate atmosfere. Dovessi scegliere un ti­tolo o una qualificazione, almeno nel loro nucleo centrale questi versi li defi­nirei epigrammi o ‑ meglio ‑"epilli" di stampo alessandrino. Il poeta (diverso sento il clima di "Theios", del 2001) si carica ed esalta dinanzi ad un modello, un tipo, una figura vista come esempla­re, e cerca di "raccontarne" o riprodurne la storia o il mito. Si vedano le sezio­ni" Audeniana", "Byroniana", "Rimbaudiana"; le prime due sono intessute di splendide traduzioni, la ter­za è un elegantissimo "capriccio" di af­fettuosa adesione al modello. Ma anche la sezione "Indizi" è fatta di fulminanti epilli, evocazioni "storiche", indiziarie di situazioni estreme e dolenti. Una ispi­razione d'occasione, di sicura godibilità.
La misura della sua vocazione al manierismo la troviamo nella sezione in­titolata "Vernacolare" nella quale, lavo­rando sulle composizioni in lingua scoz­zese del poeta settecentesco Fergusson, Buffoni si spencola in una funambolica esercitazione: la traduzione letterale dei versi scozzesi, una seconda in "milane­se" e quindi una retroversione, di nuo­vo in italiano, della dialettale. Artigia­nato da "gran fabbro".
Davvero, non avrei mai pensato di do­ver/poter leggere versi come quelli del­l'ultimo Eugenio De Signoribus, pub­blicati nelle raffinate edizioni "Quodilibet" di Macerata (De Signoribus è marchegiano, come Scataglini). Non avrei mai pensato di dover/poter, in conseguenza, vedermi balzare dinanzi agli occhi immagini or­mai lontane: di Roma o dell'Italia, della Germania o dell'Europa come erano nell'immediato dopoguerra. Immagini che devastarono la mia adolescenza, e hanno forse inquinato l'intera mia vita. Ma i versi di De Signoribus risuonano sui deserti afghani sconvolti dalla trage­dia o alla vista delle barche, le navi­carretta cariche di dolorosi esodi extracomunitari, e rintoccano ritmi che mi erano, in quegli anni lontani, fami­liari. Anche allora, nella regressione al punto zero dell'esistere e del vivere­con­gli‑altri (che non era ancora, o non era più, il convivere delle società civili) i rit­mi possibili e ascoltati per le strade e le piazze disperate erano quelli di carillon infantili, balbettanti nenie e pappine, in sostituzione di una logica resa impossi­bile dalla fine del mondo appena vissu­ta, o subita. E i versi in epigrafe di que­sto sostanzioso libretto, "Ogni anno o mille dopo/un mondo si richiude" val­gono a ricordarci, con nostro stupore, che le vicende storiche si avvolgono circolarmente le une sulle altre a scorno degli storici, e si ripetono e riecheggiano e rimbombano nel vissuto psichico. Dav­vero il mondo, quando colpito e ferito nel cuore, si richiude in se stesso; se non ogni anno, sicuramente "mille (anni) dopo". Non abbiamo scampo, l'eterno ritorno è nel dolore, nei dolori dell'uma­nità ferita e offesa. Leggiamo dunque queste strofette di ottonari, questi ritor­nelli, nei quali lo stupore dell'occhio os­servante registra immagini, inaccettabi­li nella loro inquietante prevedibilità e tuttavia antichissime e ineluttabili: una figurazione che rende plausibile quanto nella postfazione Andrea Cortellessa ci dice di De Signoribus quale erede di Franco Fortini. Solo che Fortini era brechtiano, e De Signoribus no (almeno, ci pare). Meno incisive, forse, le parti in prosa dove l'acredine dell'immagine, la "ferocia" brechtiana (va bene, faccio ammenda...) inceppano con un certo loro ec- cesso la misura poetica, che fatica ad emergere.

Scelgo, tra i ritagli di stampa di cose poetiche ammucchiati in disordine, tre articoletti dedicati rispettivamente a Franco Loi, Delio Tessa e Fabio Varese. I primi due sono figure ben note, ma il terzo è pressoché sconosciuto ai più, sal­vo a qualche cultore di letterature anti. che (Varese nacque nel 1575 e morì di peste nel 1630). Cosa unisce i tre poeti? Il fatto di essere milanesi, anzi "meneghini", perché tutti e tre scrisse­ro, appunto, nel dialetto della "madunina". A formare un quartetto straordinario vorrei aggiungere il Por. ta, ma su di lui non ho ritagli. I tre (e anche qui aggiungerei il Porta) hanno una comune spiccata vocazione, più che alla lirica, alla "narrazione" e ai registri espressivi " bassi", la satira, lo sbeffeggiamento, il grottesco, ecc. Varese coltivò il genere "burlesco" nel­le forme del sonetto caudato, descriven­do in "stile umile" ambienti sociali da vera e propria "bohème meneghina", come ci riferisce Cesare Segre. Tessa, poi, è davvero il poeta "baudelairiano" di una realtà "insensata" cui accenna Santagostini. Per tutti e tre si può parla­re, infine, di una "poesia del disincan­to", il pregio maggiore di Franco Loi secondo Rondoni. Qualcos'altro li uni­sce: tutti e tre si sono guadagnati l'at­tenzione o le cure di Dante Isella, il ma­gistrale esploratore di una tradizione da lui elevata al rango di concorrente di quella toscanocentrica, tanto che oggi l'area letteraria lombarda può accam­parsi vicinissima al centro del panora­ma letterario nazionale. Sì, non c'è dub­bio: grazie a Isella dobbiamo convenire che il "narrativo" milanese è, tra Varese e Gadda, ricchissimo e capace di espres­sione universale; quasi una lingua "na­zionale", secondo l'insegnamento di Dionisotti (però Bossi non c'entra).

FRANCO BUFFONI ‑ Del maestro in Bottega. Ed. Empirla, 2002, € 12,50

EUGENIO DE SIGNORIBUS Me­moria del mondo chiuso. Ed. Quodlibet 2002, € 7,00

DAVIDE RONDONI ‑ E Loi disse "no" al pregiudizio del disincanto, "Il Giornale", 26 febbr. 2002;

MARIO SANTAGOSTINI ‑ De/io Tessa, la di­sperazione in dialetto, "Il Giornale", sett. 1999; CESARE SEGRE ‑ La bohème meneghina, e la poesia sifa burla. "Cor­riere della Sera", 20 nov. 2002.