Recensioni / Castelli di carte

Le esposizioni sono come castelli di carta e basta un nulla per farle crollare. Con questa citazione di Giancarlo De Carlo tratta da un articolo dell'Unità dell'11 giugno 1968 si apre l'ultimo libro di Paola Nicolin dedicato alla XIV Triennale di Milano del 1968, che torna con questo volume a occuparsi delle problematiche legate alle mostre e ai luoghi espositivi.
Nato da uno studio intrapreso dall'autrice nel 2004, Castelli di carte prende il titolo proprio dalla definizione di mostra data da Giancarlo De Carlo, che della XIV Triennale fu l'ideatore e organizzatore e che campeggia nelle drammatiche immagini dell'occupazione, avvenuta il giorno stesso dell'inaugurazione e conclusasi con uno sgombero effettuato l'8 giugno, seguito dalle dimissioni dello stesso De Carlo insieme a tutta la Giunta Esecutiva.
Il libro ha il merito di portare alla luce una storia sommersa, quella di una mostra che nessuno ha visto, ma di cui molto si è parlato ("entrata come un roumor nell'immaginario di chi la mostra non l'ha neppure visitata), attraverso la raccolta di documenti di archivio, la ricostruzione degli allestimenti, le testimonianze dirette e un ricchissimo apparato bibliografico.

L'indagine si muove su piani diversi, problematizzando non solo la Triennale del Grande Numero, ma la natura stessa delle grandi esposizioni internazionali, il ruolo dello spettatore e la relazione tra arti visive e architettura. "Attraverso la scelta del tema del Grande Numero, la mostra… assumeva una valenza sociologica, gettando le premesse della responsabilità del creativo di fronte alla comunità… La XIV Triennale merita di essere presa in considerazione anche come uno dei momenti in cui una mostra–fiera-esposizione- diventa un dispositivo concettuale". La genesi della mostra, la sua relazione con la discussione sulla natura che avrebbe dovuto assumere sviluppatasi all'interno dell'organismo della Triennale stessa, le relazioni con il dibattito coevo sull'architettura, le trasformazioni delle città e la necessità di dare vita a un progetto espositivo che aprisse un dialogo con la società e con un pubblico allargato, sono analizzate nel libro in modo puntuale, così come le ricadute che queste riflessioni hanno assunto nella storia delle esposizioni e le questioni legate al dispositivo "mostra" più in generale, offrendo preziosi strumenti per leggere la contemporaneità.

Da questo punto di vista, il libro permette di costruire confronti e relazioni a distanza, tra la volontà di creare "un sistema su grande scala", un organismo-mostra coeso intorno a un tema e allo stesso tempo aperto a letture molteplici che stava alla base della XIV Triennale e alcune riflessioni attuali, come quelle enucleate dalla 12 Biennale di Istanbul, attualmente in corso, curata da Jens Hoffmann e Adriano Perdrosa che nello statement di presentazione della Biennale, significativamente intitolata Untitled, dichiarano: "in risposta a chi oggi svaluta la mostra come il formato primario dell'espressione artistica e curatoriale, privilegiando gli eventi e le programmazioni ancillari (in particolare nel contesto delle biennali), gli organizzatori della 12 Biennale di Istanbul sollecitano una attenzione rinnovata all'importanza della mostra stessa".

"Il libro ha il merito di portare alla luce una storia sommersa, quella di una mostra che nessuno ha visto, ma di cui molto si è parlato attraverso la raccolta di documenti di archivio, la ricostruzione degli allestimenti, le testimonianze dirette e un ricchissimo apparato bibliografico."

Numerosi sono i nuclei tematici affrontati nel libro, che scorre ricostruendo alcuni dei punti nodali dell'istituzione milanese, dai fondamenti programmatici delle edizioni precedenti a quella presa in esame, al dibattito che portò De Carlo e la Giunta Esecutiva a definirne il progetto. Di grande interesse è la sezione che ricostruisce narrativamente la mostra, ripercorrendone le sezioni affidate ad alcuni tra gli architetti, urbanisti, artisti, filmaker e scienziati emergenti (tra cui Arata Isozaki, Aldo van Eyck, Gyorgy Kepes, Shadrach Woods e Joachim Pfeufer, Alison e Peter Smithson, Saul Bass, Archigram, Hans Hollein, a cui sono dedicati altrettanti capitoli del libro) invitati a contribuire alla Triennale con interventi di natura ambientale, installazioni complesse dove la fusione dei linguaggi intendeva dare vita a una lettura aperta della società del Grande Numero, declinato dal punto di vista demografico, del consumo delle risorse ambientali, della produzione industriale, delle rivolte urbane ecc… e a un'interazione attiva da parte del pubblico, ponendo forse già in sé le premesse della sua distruzione. "L'ipotesi finale di questo studio, o meglio l'inizio di un nuovo ragionamento, è quello di leggere la protesta alla XIV Triennale come un evento, sottolineando in questi termini il carattere di performance, di happening e di azione sfociata poi in una tanto confusa quanto fallimentare occupazione".
Il libro dà voce anche ad alcuni protagonisti dell'occupazione della Triennale, che precede di poche settimane quella della Biennale di Venezia, e si chiude con tre testimonianze dell'epoca, quella di Ugo La Pietra, di Gian Emilio Simonetti e di Davide Boriani. Le parole di quest'ultimo sono di un'attualità per certi versi inquietante: "Milano contendeva a Parigi e a New York il primato nel settore delle arti visive, ma non aveva un museo di arte contemporanea. Il design italiano si affermava nel mondo, ma nella università italiana non esisteva un corso di design (…) Da tempo si chiedeva la riforma delle accademie di belle arti, rimaste ferme alla legge Gentile del 1926".