...Venuta meno la contrapposizione a priori tra pasdaran dello "stile
minimo" e difensori dell'infrazione a tutti i costi, il vero discrimine
sembra essersi spostato altrove. Non sorprende che in quanti sono
intervenuti nella duplice veste di narratori e saggisti si avverta un
pathos speciale. La cesura, in altre parole, sembra rispecchiare oggi
innanzitutto la prospettiva da cui si guarda alla letteratura
contemporanea. Per chi – Rasy, Policastro, Molesini, il sottoscritto –
la scrittura critica si accompagna alla scrittura creativa, la difesa
dello stile è sic et simpliciter una questione di sopravvivenza. Cosa
che invece non avviene automaticamente nel caso dei critici puri.
All'estremo opposto si colloca soprattutto Daniele Giglioli. La sua
analisi della crisi del prestigio della lingua scritta è implacabile e
persino più radicale di quella proposta nell'articolo che ha scatenato
il dibattito. Il dominio del visivo, l'estetizzazione dell'esperienza
quotidiana, il tracollo del sistema educativo... Eppure l'impressione è
che tutto questo non lo riguardi: come se la difesa della qualità
letteraria gli fosse in fondo indifferente. E non è un caso, allora, che
Giglioli abbia pubblicato da poco un libro acuto ma devastante, in cui
la letteratura contemporanea è ridotta a una sequenza di sintomi e in
cui vengono presi in considerazione quasi esclusivamente narratori che
lui stesso reputa trascurabili dal punto di vista letterario (Senza
trauma). Ma allora sorge spontaneo l'interrogativo: se interessano solo i
sintomi, perché non dedicarsi a X-Factor, ai video amatoriali postati
su You-Tube o alla pornografia di massa? Sociologismo per sociologismo,
tutti questi fenomeni sono enormemente più "sintomatici" di qualsiasi
brutto romanzo, se non altro perché riguardano un pubblico più ampio.
Per tutto il XX secolo scrittori e critici hanno fatto gioco di squadra:
non nel senso dei mutui favori reciproci, ma perché entrambi sapevano
che soltanto assieme sarebbero potuti andare avanti. Per essere tale, un
grande saggista aveva bisogno di grandi autori da analizzare (se ancora
oggi leggiamo Giacomo Debenedetti è anche perché ci interessano Svevo,
Pirandello, Tozzi o Saba). Dagli anni Ottanta si è invece diffusa sempre
più l'illusione che un critico si possa affermare senza e persino
contro gli scrittori del suo tempo: persino, cioè, se i pochi libri che
davvero contano finissero per non ricevere l'attenzione che pure
meritano. Detto con una metafora, il critico sintomatico va a pescare
con le bombe, torna a casa con le sporte piene di pesce e si cucina un
bel fritto misto, senza che il semplice fatto che in quello stesso pezzo
di mare nessuno potrà più pescare per parecchi anni turbi più di tanto
la sua digestione.
È una strada molto pericolosa. E non solo perché, una volta distrutta
allegramente la fauna ittica, a morire di fame potrebbe essere
innanzitutto la critica.