Enzo Melandri è per lo più noto per la sua opera maggiore, La linea e il
circolo, testo che dopo trent’anni giganteggia ancora nel panorama
filosofico italiano del Novecento (e non solo perché circondato da
nani). In quest’opera dal programma apparentemente circoscritto – uno
studio logico-filosofico sull’analogia – il sapere filosofico viene
squadernato, decostruito e riassemblato col rigoroso eclettismo di un
metodo che sa contaminare la fenomenologia e il marxismo critico, il
metodo genealogico di Nietzsche e Foucault e la metaforologia di
Blumenberg, il formalismo logico e la “sinistra aristotelica”.
Ora le edizioni Quodlibet, all’interno di un progetto di riedizione
dell’intero corpus degli scritti melandriani, dopo il capolavoro del
1969 ripubblicano Contro il simbolico. Dieci lezioni di filosofia,
uscito per la prima volta nel 1989 e arricchito da una postfazione di
Luca Guidetti. Per comprendere questo libro bisogna far mente locale al
decennio in cui fu pensato ed esposto in un ciclo di conferenze.
filosofia.jpgNegli anni Ottanta la filosofia italiana era un malato in
fase terminale: sdoganate dal pensiero molle, l’irresponsabilità
intellettuale e la chiacchiera fine a se stessa dilagavano come
mucillaggine. I libri erano per lo più bibliografie commentate tra le
cui righe ammiccavano scambi di favori accademici; ai convegni si
discuteva amabilmente del contrasto tra Benjamin e Schmitt con lo stesso
pathos con cui si ricordavano le dispute familiari sull’eredità tra il
prozio Aristide e la nonna Carolina. Qualunque affermazione era
legittimata, purché contenesse un qualche appiglio iniziatico,
preferibilmente ebraico o kabbalistico (ma rigorosamente letti in
traduzione); la teologia politica e l’heideggerismo la facevano da
padrone come la rucola in cucina, mentre la reiterazione continua di
parole come “disincanto” e “secolarizzazione” costituiva il
corrispettivo filosofico dei tormentoni di Luca Carboni. E il pensatore
reazionario, specie se cattolico-romano, era onnipresente come i cani di
pezza sul cruscotto dell’auto: non si capiva mai bene a cosa servisse,
ma senza pareva non si potesse organizzare un convegno o fondare una
rivista. E del resto, la parola d’ordine per entrare a far parte del
giro era: il mondo non può essere cambiato, ma tutt’al più amministrato.
In questo frangente Contro il simbolico venne a costituire, vent’anni
dopo, il complemento di La linea e il circolo: se questo, dietro la
limitatezza del programma di ricerca, nascondeva una impressionante
sistematicità, Contro il simbolico si presenta come una ferrea
concatenazione di voci: Logica, Linguaggio, Realtà, metafisica, Soggetto
e coscienza, Credenza e immaginario, Desiderio e volontà, Essere e
dover-essere, Etica e politica, Morte e finitezza. Ma nella coda
dell’apparente enciclopedismo, che è una forma di chiusura del sapere,
Melandri nasconde, con una mossa tipica del suo filosofare, il veleno:
il titolo del libro allude infatti al rifiuto di un pensiero che cerca
di fissarsi all’interno di una matrice ultimativa. Il pensiero
contro-simbolico è un pensiero che riprende l’intuizione (proveniente da
Blumenberg) di un lavoro sul mito non come mitografia, ma come
mitopoiesi: cioè come creazione sempre nuova. La mitopoiesi inverte il
segno della lettura mitica, e allude alla possibilità di liberarsi dalla
sua conclusività, e più in generale di affrancarsi dalle maglie, sempre
consolatorie, della tragicità e dell’ironia. La filosofia è per
Melandri (per citare il suo amico Calvino) un sentiero dei nidi di
ragno, un incrociarsi di linee maggiori e minori, che non conduce ad una
qualche verità perenne e non si adegua a un ordine dei fini già dato,
ma crea sempre il proprio fine nella riflessione rigorosa su se stessa, e
soprattutto nell’esperienza pratica che facciamo di tali riflessioni.
Così la lezione sulla Realtà si svela come un appello all’individuazione
di alternative allo stato di cose presente, al rovesciamento delle
conclusioni a partire dall’elaborazione di premesse alternative; e
l’analisi del Linguaggio non porta a rivelarne un qualche senso ultimo e
nascosto di cui esso sarebbe portatore, ma è illustrazione del
carattere creativo del sintagma rispetto al paradigma iniziale: cioè la
franca accettazione, pena l’inutilità del ragionare, che si possa,
ragionando con altri, «giungere a conclusioni opposte a quelle dalle
quali abbiam preso l’abbrivio». Lo si vede conclusivamente nell’ultima
lezione, riscritta in occasione della morte dell’amico Enrico Forni,
dove, dopo aver affermato che il momento individuale rispetto all’essere
sociale si dà solo nell’accettazione della propria morte, Melandri
rovescia il solipsismo nel dialogo con l’amico scomparso, a sua volta in
dialogo col “suo” Spinoza. E la lezione di Spinoza, per il quale l’uomo
saggio a nulla pensa meno che alla morte, si apre ad una meditazione a
tre voci, giacché «ogni opera è sempre un’impresa collettiva»: una
meditazione plurale sul senso del morire e sull’esperire, «vivendo
l’esperienza di verità e d’amore» come atto di amore per l’esistenza e
liberazione dalla tristezza, come «larga parte della nostra mente sia
eterna».