Recensioni / Genealogie

Ci sono libri ai quali ci si affeziona subito, perché in ogni loro frase risuona la passione etica e artigianale con cui l’autore ha affrontato il suo tema. Sono come blocchi di legno buono, qua lavoratissimi e là appena sbozzati. Il paragone viene naturale per definire questa raccolta di saggi che Angela Borghesi ha messo insieme lungo un decennio. Questi “interpreti” disegnano una costellazione molto varia: si va da Giacomo Debenedetti a Hans Magnus Enzensberger, da Cesare Garboli ad Alfonso Berardinelli, da Mario Lavagetto a George Steiner. Ma un dato comune salta agli occhi: per usare le parole di uno di loro, si tratta di critici-saggisti che leggono letteratura soprattutto per capire altro dalla letteratura. Non solo. Spesso, attorno alla loro opera si scorge l’ombra di un’altra opera non scritta, di una volontaria “interruzione di carriera” o di una vocazione sfuggente. Debenedetti rinuncia ai suoi racconti per raccontare le storie altrui. Garboli è un ostetrico dei romanzi misteriosi che covano nella realtà. Enzensberger attraversa i generi usando la tecnica del montaggio e del reportage per demistificare la “fabbrica della coscienza”. Berardinelli abbandona la poesia per la saggistica, fondendo l’affabile eleganza di Debenedetti con la percussiva critica culturale di Fortini. In questi autori, il saggio implica la presa di distanza da una modernità di cui si è orfani, e da un postmodernismo che fa carte false.
L’autrice ha costruito la sua mappa da una parte ponendosi alcune domande sulla didattica della letteratura (domande a cui Berardinelli, Steiner e Lavagetto danno risposte diverse ma paragonabili), dall’altra concludendo i suoi studi su De Sanctis e Giacomo Debenedetti. Il quale concepisce la poesia come una discesa agli inferi: “Orfeo non riporta nel mondo la viva Euridice, riporta vivo invece il racconto di come l’ha perduta (…) Il critico rifà il cammino (…) e riconduce viva Euridice, per aiutare se stesso e gli uomini a capire perché sempre si rinnovino quella perdita, quel racconto (…) e valgano per tutti”. Debenedetti, conversatore e un po’ sciamano, usa qualunque mezzo analogico gli serva a rifare questo cammino – la Borghesi paragona il suo eclettismo a quello filosofico di Enzo Paci, che però è sempre a rischio di genericità – ma soprattutto la psicologia.
Non ha una spiccata sensibilità storico-sociale, non si preoccupa dell’industria culturale in cui lavora, e anche l’iscrizione al Pci sembra frutto di quell’ebraico bisogno di protezione che lo costringe a liberarsi dei padri (vedi Croce) per vie oblique ed esorcistiche. Non a caso, un capitolo è dedicato all’“infortunio” dell’articolo che Debenedetti stese negli anni Trenta su “Mussolini scrittore”, pedaggio pagato al regime che gli sarà rinfacciato da Luigi Russo. La Borghesi riporta anche un suo interessante carteggio con Carlo Dionisotti, da cui si comprende come alcuni coetanei di “Giacomino” Debenedetti tendessero a dare al diminutivo un senso morale. Ma il libro è troppo ricco per seguire anche uno solo dei fili che intreccia. La Borghesi integra l’elitarismo di Steiner, che vuol liberarsi dalla muffa accademica e dalle sue produzioni “secondarie”, col ragionevole monito di Lavagetto, che ricorda come non ci si possa mai disfare dell’ermeneutica. Ma proprio questo libro, parlando di critici che sono scrittori autentici, suggerisce che oggi le “vere presenze” si trovano più nei loro saggi che nelle valanghe di romanzi fatti in serie o di presunti testi poetici nobilitati da un’idea astratta di poesia. E se è così, almeno in Italia, i futuri storici della letteratura dovranno disegnare una mappa dove queste “genealogie” occupino assai più spazio di quelle dei narratori o dei poeti di fine Novecento.