«Indietro»! Tamino si è imbattuto in tre grandi porte. Prova a entrare
da quella di destra, e poi da quella a sinistra, solo per esserne
scacciato da una voce minacciosa. Finalmente si aprono per lui i
battenti della terza porta. Ad accoglierlo c'è un anziano sacerdote, che
lo apostrofa con un misto di curiosità e diffidenza: «Dove vuoi andare
audace forestiero? Cosa cerchi qui nel tempio?». La risposta di Tamino è
immediata, ingenua, ardita: «Il regno dell'amore e della virtù».
La scena dei tre portali, nel primo atto del Flauto magico di Mozart,
non è solo un espediente per rendere più movimentata la peripezia del
protagonista, alla ricerca di Pamina, che non ha ancora incontrato ma
già ama: i tre portali, che costringono l'eroe ad arrestarsi e a
dimostrare il proprio valore, sono il simbolo di un'avventura
sapienziale che accompagna la cultura europea sin dal Rinascimento
italiano. Davanti a tre ingressi, del tutto simili a questi mozartiani,
si era fermato dubbioso Poliphilo, nella Hypnerotomachia del frate
Francesco Colonna, pubblicata nel 1499. Nell'incunabolo aldino
dell'opera, al di sopra di ciascun passaggio, si legge in quattro lingue
– arabo, ebraico, greco e latino – il nome di un diverso dominio:
«Gloria di Dio», «Madre dell'amore», «Gloria del mondo». Poliphilo, come
Tamino, cerca l'amore di una donna, Polia, e, attraverso di quello,
vuol comprendere se stesso. Anche l'eroe quattrocentesco ottiene di
varcare una delle tre soglie, per poi trovarsi di fronte a ulteriori
prove, col rischio di perdere la vita e la ragione.
La somiglianza tra i due episodi non è casuale: un filo nascosto di
erudizione e di esoterismo lega la Venezia del Colonna alla Vienna di
Mozart e di Emanuel Schikaneder, l'autore del libretto. A far da
mediatore tra i due estremi, tra la lotta d'amore in sogno dell'umanista
italiano e l'utopia illuministica del Flauto magico è probabilmente un
celebre testo del primo Seicento, le Nozze alchemiche, dedicate
all'unione tra principio maschile e femminile. In quest'opera è
Christian Rosenkreuz, l'eroe in viaggio verso il segreto della
trasmutazione dei metalli, a dover superare tre cancelli, che difendono
la scienza da occhi profani. La domanda è sempre la stessa. Come varcare
la soglia proibita e addentrarsi al di là delle apparenze? In che modo
raggiungere «il regno dell'amore e della virtù»?
Colonna, frate invero poco ortodosso e ancor meno casto, cerca la
risposta nel piacere sensuale e nei riti neopagani, mentre l'anonimo
autore delle Nozze alchemiche propone una raffinata e oscura allegoria
d'iniziazione. Dopo la critica radicale della religione portata
dall'Illuminismo, Mozart e Schikaneder scelgono un registro espressivo
più lieve, ma non per questo meno carico di allusioni erudite. Il tempio
in cui Tamino è riuscito a penetrare si rivela una vera macchina
simbolica. Sotto la guida del re-sacerdote Sarastro (nome che evoca la
pronuncia italiana di "Zoroastro"), gli iniziati si muovono in uno
spazio denso di riferimenti all'antica tradizione ermetica. Loro numi
tutelari sono Osiride e Iside, sul seggio su cui siedono in assemblea è
collocata «una piramide assieme a un corno nero incastonato d'oro»,
mentre altre «piramidi diroccate, resti di colonne e porte egizie»
riempiono l'atrio del santuario. E, ancora, i sacerdoti portano in
processione «sulle spalle, una piramide illuminata, e in mano, una
piramide trasparente della grandezza di una lanterna». Per Mozart e per
il suo librettista, e per gli spettatori che assistono alla prima
dell'opera, il 30 settembre 1791, questi decori sono più che semplici
elementi scenografici. L'Egitto, le piramidi, i riti compiuti in nome di
Osiride evocano un dibattito che appassiona e divide in quegli anni la
capitale asburgica e l'Europa intera. Sia Mozart sia Schikaneder sono
convinti massoni (così come lo è Carl Ludwig Giesecke, che forse ebbe
parte nella stesura del libretto), ed è proprio ripercorrendo la vita
intellettuale delle logge viennesi che è possibile recuperare
motivazioni ed echi formali altrimenti per noi inafferrabili. Un'ottima
occasione è data dall'edizione italiana di un libro quasi dimenticato di
Carl Leonhard Reinhold, I misteri ebraici ovvero la più antica
massoneria religiosa. Viennese anch'egli, prima gesuita poi passato al
protestantesimo, entrò nel 1783 nella loggia «Alla vera concordia» (Zum
wahren Eintracht), alle cui sedute partecipava spesso Mozart (affiliato
alla «Carità» – Zur Wohltätigkeit). Alla guida della loggia era Ignaz
von Born, a cui forse è ispirato il personaggio di Sarastro. E su invito
di von Born, tra il 1786 e il 1787 Reinhold scrisse I misteri ebraici.
L'opera è una revisione, audace e provocatoria, della figura di Mosè.
Principe iniziato ai misteri egizi, Mosè avrebbe deciso di usare i
segreti rituali della religione di Osiride e Iside per guidare la
propria gente nell'esodo dalla terra dei faraoni. Così, grazie a uno
stratagemma di natura essenzialmente politica, quello ebraico sarebbe
stato l'unico popolo dell'antichità a ricevere in massa una rivelazione
destinata di norma solo a una ristretta élite di sapienti. Reinhold non è
certo tenero verso gli ebrei, definiti sprezzantemente «nomadi
selvaggi» e ignoranti.
Quello che gli interessa è il nucleo di conoscenze che si cela dietro i
loro riti. Per lui, e per i confratelli massoni a cui è rivolto il
libro, la liturgia ebraica, dai gesti e dagli abiti del sommo sacerdote
sino agli arredi del tempio, racchiude un messaggio salvifico che
proviene dall'Egitto, e di cui, nei secoli, si è persa la chiave. Con un
termine che torna insistentemente nel libro, Reinhold chiama
«geroglifici» i precetti e i paramenti rituali descritti nella Bibbia.
Il suo lavoro vuole decifrare, in senso massonico, il significato
occulto dei cerimoniali, per accedere alla verità, oscurata dalla
superstizione e dall'oblio. Anche il Dio ebraico è ridefinito in termini
egizi. «Io sono colui che sono», pronunciato dal roveto ardente, è
interpretato come l'equivalente del motto inciso – secondo la
testimonianza di Plutarco – sull'immagine di Iside a Sais: «Io sono
tutto ciò che è stato, che è, e che sarà. Nessun mortale mai sollevò il
mio peplo». Scopo del sapiente sarà allora alzare il drappo, che rende
invisibile l'essenza del divino.