La prima sensazione che procura la lettura del brillantissimo reportage
giornalistico, redatto da un giovane Gianfranco Contini, dell´incontro
internazionale tra intellettuali europei svoltosi a Ginevra nel 1946 –
adesso edito da Quodlibet con il titolo Dove va la cultura europea?, per
la cura di Luca Baranelli e con un´introduzione di Daniele Giglioli – è
quella di un contrasto acuto tra la marcata lontananza dell´orizzonte
postbellico, e anche dei protagonisti, e la singolare attualità di
alcune notazioni del «critico nelle spoglie del cronista», come egli
stesso si presenta. Notazioni profonde, nei confronti di un evento certo
non anodino, come poteva essere il primo dibattito europeo dopo la
sconfitta non solo del nazismo, ma per certi versi dell´intera l´Europa;
ma insieme caustiche, espresse in punta di penna e senza reticenze
diplomatiche, da parte di un "inviato" del calibro di Contini, appena
reduce dalla lotta partigiana e anche da una personale esperienza di
governo nella breve stagione repubblicana dell´Ossola, come ricordato
nel libro in forma di intervista Diligenza e voluttà. Ludovica Ripa di
Meana interroga Gianfranco Contini (Mondadori 1989).
Sembra quasi di vedere, nello scenario svizzero ricostruito con
incomparabile verve narrativa dall´autore, «l´erta canizie romantica»
del «simpatico ed eruditissimo» Francesco Flora «fra le tante teste
pettinate (come, molto affettata, la perdurante frangia ascetica di
Benda)» o il contrasto, non solo di idee, tra Karl Jaspers, «gentiluomo
altissimo, esile, pallido e canuto, figurino impeccabile in nero e
grigio» e «il piccolo Lukács, col suo volto di asceta magro e duro, con
la bocca larghissima e piatta, gli occhiali ampi?, la zazzera
centroeuropea appena contenuta e un vestitino color senape». Il tutto
non senza notare, da parte del critico-cronista, la vistosa carenza di
italiani, rappresentati dal solo Flora, dal momento che Croce, alla
notizia di una probabile "calata di Sartre", aveva esclamato «E allora
che ci andiamo a fare?». D´altra parte non c´era poi da sorprendersi
che i francesi, veri padroni di casa, non avessero fatto ponti d´oro a
coloro che, con Hitler quasi a Parigi, li avevano aggrediti alle spalle.
Il che non toglie che Contini potesse legittimamente lamentare
l´assenza non solo dei Moravia, degli Alvaro o dei Bacchelli, ma anche
dei "giovani filosofi" Calogero e Capitini, Antoni e Bobbio, Luporini e
Del Noce – tutti, ad eccezione degli ultimi due, della sua stessa
provenienza azionista.
Davanti alle macerie ancora fumanti della guerra, a un anno dalla
scoperta di Auschwitz e dall´esplosione di Hiroshima, la domanda intorno
a cui ruotano le giornate di Ginevra non è poi tanto diversa da quella
del primo Congresso degli scrittori antifascisti tenutosi alla Mutualité
di Parigi nel giugno del ´35 (su cui si veda Per la difesa della
cultura. Scrittori a Parigi nel 1935, a cura di Sandra Teroni, Carocci
2002). Dal resto il motivo della décadence europea era stato intonato da
tempo, prima ancora che dai vari Husserl, Heidegger, Spengler, da un
ispirato Valéry, all´epilogo dell´altra guerra, quando,
all´interrogativo «Che cosa è, dunque, questa Europa», poteva già
rispondere che essa «è una sorta di capo del vecchio continente, una
appendice occidentale dell´Asia» in La Crise de l´esprit. Note (o
L´Européen). Certo, rispetto ad allora un´orda di barbari aveva passato
il Reno minacciando di travolgere una civiltà bimillenaria. E già
s´intravedeva, tra i vincitori americani e russi, uno scontro di
egemonia, foriero, se scatenato, di una catastrofe ancora peggiore. È in
questo quadro incandescente e incerto che Contini esercita la propria
critica affilata, prendendo debita distanza innanzitutto dal proposito,
in quell´occasione un po´ goffo, prima ancora che reazionario, di tenere
a riparo la cultura europea dal vento della politica.
Da qui, da questa opzione esplicita a favore di un impegno sobrio ma
fermo, discendono tutti i suoi giudizi. Da quello, impietoso, per
«l´ircocervo di sciocchezze, di logica e finezza victorhughiane» di
Bernanos, «clown perfetto» con la sua «oratoria catastrofica di
cassandra non inascoltata» a quello, rispettoso, nei confronti del
marxista Lukács, nonostante la netta distanza ideologica che li
separava; a quello, aperto ma perplesso, su Jaspers, ricco di pathos
esistenziale, ma privo di coerenza interiore e di necessità speculativa.
Ciò cui, contro le ipotesi totalizzanti di destra come di sinistra,
Contini sembra piuttosto rimandare, nell´ora della ricostruzione, è il
senso del limite e dell´equilibrio tra le polarità opposte che, nella
loro dialettica, hanno costituito la risorsa profonda della storia
europea – l´oscillazione continua tra ragione e fede, autorità e libera
ricerca, ordine e rivoluzione. La stessa Resistenza, nella memoria
freschissima dell´autore, si configura come una vicenda fatta di
ingredienti diversi, ma non priva, nella sua vocazione al sacrificio, di
un impulso religioso.
Ma perché l´Europa possa ancora attingere a quella fonte, apparentemente
inaridita – questa mi pare la conclusione che possiamo trarre dalle
terse pagine di Contini – deve rinnovare radicalmente, prima ancora che
il rapporto con le potenze che la circondano, quello con se stessa. Non
solo vincere il demone nazionalista che per troppo tempo ha portato
dentro rischiando di farsene strangolare, ma anche ripensare a fondo la
fatale categoria di sovranità, allargandola progressivamente dai confini
dei singoli Stati a quello dell´intera comunità europea. Nella
relazione di apertura dell´incontro di Ginevra (oggi interamente
leggibile in rete) Julien Benda pronuncia parole che, a sessantacinque
anni di distanza, non hanno perso nulla della loro pregnanza: «oggi
l´idea di nazione sembra aver terminato la sua carriera, a favore
dell´idea di Europa. Ma non facciamoci illusioni; non crediamo che tale
idea trionferà naturalmente; sappiamo che essa troverà, da parte di
quella che intende detronizzare, una forte opposizione e una resistenza
tenace. La verità è che le nazioni, per fare veramente l´Europa,
dovranno abbandonare, non certo tutto, ma qualcosa della loro
particolarità in favore di un´entità più generale».