Recensioni / Quando Leibniz e Stahl litigavano sulla definizione di «vivente»

Correva l’anno 1708. Nel mondo erano successe un sacco di cose, ma la storia ama ricordare Carlo XII di Svezia che trovò un accordo con i cosacchi di Mazeppa, o quel lento e inesorabile tramare dei Gesuiti che consigliavano Luigi XIV di Francia di perseguitare concretamente i giansenisti. Certo, sempre in quel 1708 l’olandese Herman Boerhaave pubblicò le sue Institutiones medicae, indiscutibile punto di riferimento per la clinica. Anche se questo formidabile dottore, che era pure chimico e botanico, sovente si celebra per la sindrome che reca il suo nome: quella che comporta la rottura spontanea dell'esofago. Sempre in quel 1708 il titolare della cattedra di medicina dell’Università di Halle, Georg Ernst Stahl, dà alle stampe un’opera dal titolo altisonante: Theoria medica vera. Oggi, quasi sicuramente, la prenderebbero in considerazione soltanto gli antiquari se di essa non si fosse occupato uno dei filosofi sommi, Gottfried Wilhelm Leibniz.

Cosa successe? Innanzitutto una polemica tra i due. Ma non si trattò di una disputa sterile, perché dall’incrocio intellettuale dei fioretti e poi delle sciabole, oltre il contrasto tra vitalismo (Stahl) e meccanicismo (Leibniz), venne messa in gioco la stessa definizione di «vivente». Anche il vocabolo «organismo», termine che come desidera il suo etimo riguarda i corpi organici, già rintracciabile in Aristotele e che nella filosofia cartesiana si spiegava ricorrendo a una macchina, ritrova in questa polemica nuove coordinate. Si arriverà anche a mettere meglio in luce quella che oggi si chiamerebbe l’«auto-organizzazione» di questo benedetto «organismo». Insomma, disputa feconda. Utile. Fascinosa. E, tutto sommato, divertente. Vediamone qualche aspetto ora che Antonio M. Nunziante ha pubblicato, con testo originale e traduzione, le «Obiezioni contro la teoria medica di Georg Ernst Stahl» di Leibniz «sui concetti di anima, vita, organismo» (Edizioni Quodlibet).

Dobbiamo immaginarci un giorno qualunque del 1709, quando il filosofo tedesco, a cui non sfuggiva nulla, alcuni mesi dopo la pubblicazione comincia a compulsare le pagine del ponderoso tomo contenente la Theoria medica vera del professor Stahl. Mentre a quest’ultimo giungono plausi e approvazioni, che creati, sottoposti o colleghi meno potenti si affrettano a inviargli, Leibniz è intento a stilare annotazioni critiche, precisazioni, punzecchiature. Ne nasce, come ricorda Nunziante, un primo manoscritto con osservazioni critiche — animadversiones — che il pensatore spedisce il 29 luglio di quel 1709 al barone Karl Hildebrandt von Canstein. E questi, com’era abitudine, lo gira al diretto interessato. Stahl, dopo essersi crogiolato tra lodi e giudizi proni e supini, accusa il colpo; fa finta di nulla. Leibniz, del resto, in quell’anno è noto più per la fama riflessa che non per le opere. Per esempio, la Teodicea non ha ancora visto la luce, i «Nuovi saggi sull’intelletto umano» sono finiti ma verranno pubblicati soltanto nel 1765, la «Monadologia» la scriverà nel 1714 (e uscirà nel 1720); insomma, perché un potente accademico avrebbe dovuto replicare a un personaggio noto ma non illustre? Gli aveva ricordato che «l’azione propria dell’anima è distinta dal movimento» (XXX obiezione), ma si era permesso qualche insolenza. Come nel finale dell’VIII obiezione: «Io ero solito collocare la vita nella percezione e nell’appetito. Il celebre autore la individua piuttosto nella capacità del corpo di conservarsi contro la tendenza al disfacimento, perché altrimenti i corpi viventi sarebbero assolutamente instabili, di modo che la vita finirebbe per essere l’equivalente del sale, come un tale diceva per scherzo riferendosi all’anima del maiale». (segue...)