E' difficile immaginare uno dei maggiori filologi e critici letterari del secolo scorso, Gianfranco Contini, nelle vesti di reporter ed è ancora più difficile immaginare in quell'umile veste il depositario di una scrittura proverbialmente ardita, intarsiata, non meno complessa degli autori (veri e propri giacimenti auriferi, dai lirici duecenteschi a Gadda e Pizzuto, dai provenzali a Marcel Proust.) di cui di volta in volta è stata il tramite. Eppure esiste un lungo reportage firmato Gianfranco Contini, per l'occasione autodefinitosi «critico nelle spoglie del cronista», uscito sulla «Fiera letteraria» del '30‑31 ottobre del '46 e ora riproposto da Quodlibet col titolo Dove va la cultura europea? nella cura impeccabile di Luca Baranelli cui si aggiunge un limpido saggio di Daniele Giglioli.
L’occasione è un Rencontre internationale che si tiene a Ginevra fra il 2 e il 14 settembre dello stesso anno, come se fosse un'oasi spirituale fra le rovine della guerra, mentre il tema non potrebbe essere più militante alludendo ad un Esprit européen che se da un lato fa riferimento a plurime tradizioni culturali e politiche, dall'altro si manifesta al presente nel segno della controversia ideologica e di una disputa che già risente della guerra fredda.
Poco più che trentenne, da anni in esilio ufficioso a Friburgo dove insegna filologia romanza, ex partigiano nella sua Valdossola, aderente al Partito d'Azione, Contini siede in platea e procede al computo delle presenze e delle assenze: fra i liberali, Benedetto Croce pare non sia venuto per timore di incrociare Jean-Paul Sartre (nuova star della filosofia che a sua volta non si è fatto vedere) così come risultano assenti André Gide e Thom,as S. Elliot; l’ex comunista e ora liberalsocialista Ignazio Silone ha risposto all' appello ma è ripartito senza aprire bocca; la presenza ufficiale dei cattolici (nella latitanza di Maritain, di Mounier e di Aldo Capitini) si riduce a Georges Bernanos, grande scrittore ma oratore tribunizio e un po' troppo victorhughiano che Contini infatti definisce un energumeno: più interessanti sono semmai le comparsate di alcuni semisconosciuti e però destinati a grande nome, quali Jean Starobinski, Maurice Merlau‑Ponty e Lucina Goldmann.
Nonostante la prevalenza dei francesi (sotto il patrocinio di Marcel Raymond, insigne storico delle avanguardie), la contesa ben presto si riduce a quella fra esistenzialismo e marxismo e cioè fra due solisti, il celeberrimo Karl Jasper e un ignoto professore ungherese («volto di asceta magro e duro, con la bocca larghissima e piatta, gli occhiali ampi, la zazzera centroeuropea appena contenuta e un vestitino color senape»), niente meno György Lukács. Ci si aspetterebbe da parte di Contini una maggiore vicinanza all'esistenzialista tedesco ma, lamentando l'eclissi della Resistenza e del suo «spirito religioso», egli pende invece dalla parte dell'oscuro professore dove sente attiva la lezione dell'Illuminismo e con essa la possibilità di dedurne, per l'Europa, una «storia razionale».
Ciò non impedisce al reporter un giudizio complessivamente negativo sul Rencontre e su un dibattito così generico da tradursi in occasione mancata. C'è solo un attimo che in retrospettiva sa di preveggenza, quando dalla terza fila, forse esasperato dalla fumosità che avvolge lo Spirito Europeo, chiede la parola un italiano che non è affatto un letterato, Umberto Campagnolo (1904-1976, antifascista a lungo esule a Ginevra, poi storico delle dottrine politiche a Padova e futuro collaboratore di Adriano Olivetti). Campagnolo guarda alle macerie d’Europa e soprattutto agli europei sopravvissuti alla Guerra mondiale, ora chiamati a sacrifici che ribadiscono antiche diseguaglianze d’ordine economico e sociale. Stando al referto di Contini, a un certo punto sbotta: «No, egli asserisce, questi guai [...] dipendono tutti da fattori tecnici: da istituzioni che, nate in situazioni determinate, si sono svelate inadeguate alla nuova situazione. La malattia è nel mercato, e il rimedio [...] consiste nella fusione dei mercati europei, nella federazione europea». Ora per allora, a distanza di decenni, si potrebbe dire meglio?