Nei versi di La gloria o quasi, Montale rievocava con nostalgica ironia le «felicemente defunte Rencontres Internationales» di Ginevra, i celebri congressi dedicati ai temi maggiori della civiltà europea, cui lo stesso poeta aveva partecipato tra il '47 e il '49. Non vi mancava mai, scrive sornione Montale, «una poltrona / sempre vuota e una scritta che diceva / Riservata alla vedova / di Affricano Spir». Chi fosse costui – un filosofo russo‑tedesco di scuola neokantiana, morto a Ginevra nel 1890 poco importa; conta più quel nome, eterocito e bizzarro: quasi il marchio della provinciale intemazionalità, dell'appartato cosmopolitismo tipicamente svizzeri. Ma c'era stato un tempo (che forse dura ancora) in cui la Svizzera aveva incarnato non solo i per Montale la possibilità di una libera espressione dell'individuo, altrove impedita dai conflitti e dalla nascita della società di massa. Un tempo che comincia con la fine della Seconda guerra, proprio quando l'intellighenzia ginevrina inventa le Rencontres per riannodare i fili di una cultura spezzata e per definire i tratti dell'Esprit européen. Nasce con questo intento la kermesse elvetica; tutt'altro che defunta in verità (la 44a edizione si è tenuta lo scorso ottobre), anche se un po' meno blasonata ed ecumenica rispetto alla prima edizione, quella del 1946, cui presero parte tra gli altri: Benda, Bernanos, De Rougemont, Jaspers, Lukács, Merleau‑Ponty, Spender, Starobinski. L'Italia, sottorappresentata, contava sulla presenza di Francesco Flora e su quella, ben più in tema, di Gianfranco Contini: nato nel 1912 a Domodossola e professore a Friburgo, Contini era infatti il più 'svizzero' tra i nostri intellettuali. Della prima Rencontre poté dunque pubblicare sulla «Fiera letteraria» una cronaca qualificata, che ricevette i complimenti dello stesso Montale. Oggi, nel centenario della nascita di Contini, quel in portage viene ristampato in un piccolo volume curato con la consueta esattezza da Luca Baranelli: Dove va la cultura europea? Sulle cose di Ginevra (con un saggio di Daniele Giglioli).
L'impegno civile e la cultura politica di Contini non colgono di sorpresa chi conosca almeno le sue Pagine ticinesi; ciò non toglie che la lettura di questa «relazione sulle cose di Ginevra» (si noti l'allure umanistica del sottotitolo) ne restituiscano un'immagine in parte nuova. Non tanto, osserva Giglioli, per la competenza nell'affrontare «i più stringenti problemi filosofici e politici [...]in un contesto per di più difficile, minato com'era dalla genericità» e «dalla potenziale vacuità dell'occasione»; quanto per «la scelta di campo» che spinge Contini a dare ragione a Lukács, «all'interno di una circostanza che gli appare sostanzialmente dominata dal contrasto tra Lukács e Jaspers, ovvero tra esistenzialismo e marxismo».
Capire la ragione di questa i paradossale circostanza richiede un approfondimento sul pensiero o meglio sulla religione di Contini. E' la sua formazione rosminiana a fornire infatti gli indizi più importanti; in particolare il concetto i di 'teodicea' che – spiegava Contini nel libro‑intervista Diligenza e voluttà – è la «scienza dei rapporti provvidenziali istituiti da Dio nel complesso del cosmo». Ora, a Contini interessa proprio la conoscibilità razionale di quei rapporti più che l'oggetto inconoscibile che li motiva. Così come, in ambito critico‑filologico, le tracce materiali del lavoro creativo gli appaiono notevoli più di ogni i valore estetico rivelato. Di qui il relativo consenso nei confronti di Lukács, la cui religiosità (anche fisiognornica: un «volto di asceta i magro e duro») Contini oppone al 'dandysmo' di Jasper («figurino impeccabile in nero o in grigio»). Ma, al di là dell'habitus e soprattutto dell'orientamento politico ideologico, l'illustre cronista apprezza lo guardo sull'immanente, lanciando ironici strali (acuminati, in particolare, quelli verso Bernanos) contro la contemplazione «di non so che verità noumenica, fides sine operibus».
Che la cultura dell'Europa e il suo 'spirito' non vivano nell'isolamento trascendentale è una lezione che, a più di sessant'anni dalla prima Rencontre, non si può smettere di imparare.