Recensioni / Bacon & Freud corpo a corpo. Per cercare la vita (e la morte) sottopelle

SAINT‑PAUL‑DE VENCE
Basterebbe l'immagine contrapposta dei due atelier. Quello di Bacon non sembra nemmeno uno stu­dio ma una franante scultura di de­triti cromatici, una fucina impazzi­ta di resine e cascami: l'antro di un clochard all'ultimo stadio, avvi­nazzato di acrilici, di acquaragie. Una discarica‑tavolozza: porte sbudellate di pennellate nervose saggiate sul legno, lattine di pelati sventrate e colme di tintura, spo­glie di giornali a terra, un cuscino inzaccherato di umori e il biancore freddo d'un paio di occhiali: il bi­sturi dello sguardo ormai naufrago. Quello di Lucien Freud sembra la sala d'attesa d'un professionista, semplicemente disordinata. La luce schermata, qualche tendaggio, quasi la parodia d'uno studio d'ac­cademia: un senso di attesa, di evento che deve prodursi. Losco scantinato contro umido abbaino, peloso di fogliami, anche familiari: le tenebre contro la tiepida penom­bra. «Un décor da cinema, o da tea­tro d'opera, quello di Freud», az­zarda giustamente Jean­Louis Prat, il curatore di questa intelli­gente mostra parallela Bacon­Freud, Expressions, che alla Fonda­tion Maeght di Saint‑Paul­de‑Vence propone proprio quale introibo em­blematico l'immagine di questi due universi, così connessi eppure tan­to contrapposti.

«L'atelier di Freud è dedicato al­l'evidenza di chi lo verrà ad abita­re, tanto il modello sembra atteso, desiderato, indispensabile per riempire questo misterioso am­biente in cui ti pare di accedere da intruso». Diverso, diversissimo nei due amici (dalla poetica così diver­gente) l'uso del vuoto: concentra­zione cosmica dell'energia elettri­ca, vitale, esplosiva, in Bacon con i suoi lacerti di anatomie compresse e beckettianamente dimenticate, «posate» dal mondo in un angolo di stanza. Ed invece una dilatazione lievitante ed oppressiva dei corpiobesi in Freud, che quasi crollano contro lo spettatore, sino a lappare la lente di quell'obiettivo frigido che è divenuta ormai la finestra di­lagante della tela, sino a non poter­ne più d'essere contenuti nel foto­gramma della visione.
Nudi ancora più nudi del nudo, scorticati nella loro intoccata esat­tezza anatomica; oppure aggrappa­ti a pullover usi e a vestitini stam­pati da massaia; nudi mentali, più sfrontati e aggressivi e vulnerabili delle sagome davvero déshabihlées, «Freud va così in là nell'emozione ‑ nella sua impietosa radiografia del­l'epidermide del vivere, osservava John Russel ‑ che noi ci domandia­mo talvolta se abbiamo diritto di essere lì».

Bacon non pone di questi proble­mi, non si cura degli intrusi, anzi, forse li cerca, li provoca. Ma è vero (come ha risposto una volta contra­stando Jean Clair) «non c'è nessuna ostilità contro i miei modelli». Non che li deformi o incenerisca, come pare: semplicemente non li vuole nemmeno tra i piedi, nel suo stu­dio‑paperohles: «Io dipingo solo le persone che conosco bene, di cui so a memoria la struttura del volto. Preferisco lavorare solo, non voglio fare nulla che sia un'illustrazione».

Freud, invece, questo «Ingres dell'esistenzialismo» come lo chia­ma, chissà se con un millimetro di ironia Robert Hughes, tenta di pro­porre una super­illustrazione, una coronografia delle superfici molli, una biopsia dell'epidermide.

E' curioso: Freud (nipote di un nonno ingombrante, nato a Berlino ma costretto a fuggire per le sue origini ebraiche, giovinetto talenta­to che ruba le ore della pittura al­l'ossessione dei cavalli) e Bacon (dublinese figlio di un allevatore di cavalli da corsa, di famiglia più ru­de, nonostante derivi dall'omoni­mo filosofo elisabettiana, nomade, oppresso dall'asma, fuggiasco a se­dici anni, tentato perennemente di abbandondare la pittura per qual­siasi abiezione di lavoro, anche mo­desto e violento, «non abbastanza surrealista» per poter esporre con i «soldati» di Breton), ebbene, ancor freschi di entusiasmo, amici da po­co, Bacon e Freud si recano nella Parigi‑Juliette Gréco (è l'anno post­liberazione del clamore per le Mani sporche di Sartre e Antoine) e si re­cano proprio al Petit Palais, per sco­prire la nevralgica retrospettiva consacrata a Ingres.
Che meraviglia, l'ipotesi di poter origliare i loro discorsi, i loro atteg­giamenti sicuramente bellicosi ed in contrasto.
Freud, che per spinto di contrad­dizione ha sempre affermato di preferire Miró (chissà, fosse almeno il Miró «dettaglista» dei primi belissimi ritratti figurativi e cesel­lati) piuttosto che non ammettere il debito di Grosz, ai Dix, a Gnmdig, ai fratelli‑rivali della Nuova Ogget­tività, che certamente erano lin­guaggio corrente nella Berlino isherwoodiana in cui vivacchiava anche lui, non nasconde la sua am­mirazione per Ingres. Ma se all'ini­zio era forte questa tentazione del­l'esattezza clinica, della precisione perturbante (per dirla col nonno) insomma, quel gusto glassato del contorno stagliata alla Ingres, sem­mai angosciosamente più addossa­to all'obiettivo, presto subentra in­vece l'esigenza di una pastosità più avventurata e risucchiante, quasi lavorando «l'argilla umana», come suggerisce Hughes. Freud muta proprio di tecnica, passando dai pennelli di martora, lisci e lievi, al­la pennellessa (brosse, spazzola, di­ce letteralmente l'idioma francese) di rude setole di porco, che smangia le superfici, che lascia inconclusa la pasta pittorica. E' il partito­preso dell'imperfezione, della sgradevo­lezza ricercata, «non ci sono mai dei momenti di felicità totale nella creazione di un'opera d'arte. Né si avverte la promessa nell'atto del creare, ma sparisce subito nel com­piersi dell'opera».Bacon la felicità non sa nemme­no cosa sia. Ma non ama neppure che si teorizzi intorno alla sua pit­tura. «Non voglio dire nulla con la mia opera» rispondeva riottoso «e soprattutto non fare dei discorsi moralistici. Si tratta per me soltanto di montare una trappola per mezzo della quale io possa afferra­re un fatto al suo punto più vivo»; Le inconfondibili «gabbie» incande­scenti e mentali in cui chiude le sue larve smembrate e sanguinanti pla­smi e fetori metropolitani. L'artista dell'energia che si fa carne, dell'i­steria da camera d'albergo: il raccontatore dei lenti suicidi del vive­re abbruttito. Il pittore che ha volu­to dipingere il grido: non l'urlo psi­cologico di Munch, l'emozione co­lorata che sta intorno ad un paesaggio interiore. Ma proprio lo stridore dell'urlo, la materia del grido, la visionarietà dell'orrore, come ha scritto Gilles Deleuze, nel suo esemplare Francis Bacon, Lo­gica della sensazione, meritevol­mente tradotto da Quodlibet.«Si direbbe che, nella storia della pittu­ra, le Figure di Bacon siano tra le ri­sposte più sorprendenti alla do­manda: come rendere visibile forze invisibili?». E non si tratta di defor­mare espressionisticamente, Bacon si sarebbe infuriato.

Continuava a ripetere: «Io tento di rendere le mie tele il più realisti­che possibile, è tutto quello che posso fare. Cerco di trovare una tecnica grazie alla quale io possa rendere la vita in tutta la sua forza. Ma comunque l'arte è una cosa ar­tificiale, fabbricata». Produrre la vita, vedere la morte, giocare. Co­me nello splendido Uomo con cane, vero poema dell'assenza: il padro­ne ridotto a hitchcockiano, decapitato ectoplasma che sfugge, preda lui, invisibile, d'un guinzaglio che insegue la fotografia mossa d'un cane, sporto sul gorgo metafisico d'un tombino, che aspira definiti­vamente anche il nostro sguardo.