Il personaggio più emblematico, quello che avrebbe la tentazione di ritrarre?
«È il protagonista di un racconto di Kafka, Un artista del digiuno,
contenuto in una delle sue ultime opere che raccoglie di quattro
apologhi sulla disperazione dell'arte. Narra di un digiunatore che viene
presentato nelle piazze da un impresario, dice Kafka, oggi diremmo un
gallerista. Con il tempo però il suo mestiere passa di moda, l'artista
viene ceduto a un circo, chiuso in una gabbia ed esposto in un corridoio
di passaggio vicino alle stalle degli animali, nella distrazione
generale del pubblico. Prima di morire d'inedia, chiede scusa alla
società per aver dedicato la sua vita a un'arte inutile, che non ha
saputo arricchirla. Al suo posto, tolto dalla gabbia il suo corpo e la
paglia che lo ricopriva, verrà messa una giovane pantera».
Una potenza figurativa fortissima…
«Già, ma Kafka è irrappresentabile. Non c'è cinema, teatro o dipinto che
riesca a eguagliarlo. Questo racconto, trovo, è il suo autoritratto
perfetto».
E il messaggio che vi leggi è il più scoraggiante per un artista. Per
lei un antico cruccio. Marco Scatasta, che con lei scelse i testi per i
«Ritratti arbitrari» (Einaudi), nel 1960 presentò la sua prima mostra ad
Ascoli dicendo: «Alla domanda che sempre la società pone “Tu che ci
dai?” l'artista non deve arrossire».
«È proprio così. Il cruccio di Kafka che sento mio - potrei dire “il
digiunatore sono io” - è più che mai vivo nell'artista di oggi. Lo trovo
molto ben attualizzato in un libro di Salvatore Settis sugli artisti
del Rinascimento e i loro committenti. L'autore interroga il quadro
attraverso le sei funzioni linguistiche di Jakobson. Si chiede quali
siano: 1) il suo contenuto, 2) il destinatore da cui parte il messaggio,
3) il destinatario cui è rivolto, 4) il contesto di realtà, 5) il
codice condiviso, 6) il contatto che tiene viva la comunicazione.
Soprattutto alla terza e alla sesta domanda, oggi che a dettare tutte le
regole è il mercato, non saprei più che cosa rispondere».