Da quasi cinquant'anni, ogni biblioteca d'architetto ospita L'architettura della città di Aldo Rossi, divenuto ormai un trattato classico per aver definitivamente cambiato l'approccio disciplinare alla lettura della città, intesa, nella sua complessa interezza, come un'unica architettura nella quale la costruzione si stratifica e articola nel tempo generando «fatti urbani», «monumenti», «tipi», concetti ormai indispensabili alla ricerca scientifica e al dibattito culturale.
Per rispondere positivamente ad una crisi dell'architettura rinchiusa in un «funzionalismo ingenuo», Aldo Rossi pubblicò per la prima volta L'architettura della città nel 1966, ignaro del successo internazionale che l'attendeva. Oggi, l'opportuna riedizione del testo da parte di Quodlibet Abitare (224 pp., 20 euro), a quindici anni dalla morte dell'autore, offre un contraltare indispensabile a libri come La fine della città di Benevolo, L'anticittà di Boeri e Senza architettura di Ciorra, che dolorosamente denunciano una nuova crisi dell'architettura.
Rileggere L'architettura della città, non soltanto è utile a tutti per comprendere le forze che sottendono al costruirsi delle nostre città nel tempo, così da poterne riconoscere la ricchezza e magari prevedere i fallimenti, ma significa anche riscoprire il suo autore, figura centrale della storia dell'architettura italiana dalla seconda metà del Novecento. Primo architetto italiano a vincere il Pritzker Prize, una sorta di Nobel dell'architettura, Aldo Rossi ha costruito edifici in Germania, nei Paesi Bassi, in Giappone, e tuttora architetti di fama internazionale dichiarano di ricondurre all'architettura rossiana il proprio movente espressivo.
Tuttavia, raccontare Aldo Rossi è ancora oggi un'operazione destinata a rivelarsi imperfetta.
Forse perché il positivismo messo a guardia della sua opera distrae dal sottile tormento imprigionato nelle sue architetture semplici: chi, invece, gli si avvicina profondamente scopre che Aldo Rossi non era soltanto un architetto, ma un assemblatore di cognizioni improvvise e inspiegabili e riconosce nelle sue composizioni infiniti “rocchetti di Ernst”, emozioni costruite per sostituirne altre irrimediabilmente perdute. Chiunque l'abbia incontrato lungo il proprio cammino di architetto non ha resistito alla tentazione di giudicarlo e di comprenderlo, per militare tra coloro che lo amano incondizionatamente o tra quelli che fingono di rifiutarlo, ma che poi, segretamente, si rifugiano in quell'architettura sognante che egli aveva lasciato si intravedesse ne L'architettura della città ancor prima di costruirla.