Renzo Tramaglino, se vi ricordate (Promessi Sposi, capitolo XXXIII) dopo
due anni di assenza, dopo il matrimonio saltato, i disordini di Milano,
la sua fuga nel Bergamasco, la peste ancora in corso, ritorna di
nascosto al paesello natale (chissà dov'è finita Lucia? Pensa), passa
davanti a casa e vede che la vigna, l'orto, il cortile, tutto si è
inselvatichito. Manzoni nella prima versione (Fermo e Lucia, sono andato
per curiosità a rileggerla) parlava solo della casa, dove erano passati
i lanzichenecchi, coi guai tipici che comportano i lanzichenecchi, muri
affumicati, imposte usate per fare fuoco e cuocere i würstel, la paglia
per terra come dormitorio, intonaco scrostato, i lanzichenecchi avevano
il vizio di scrostare l'intonaco. Renzo si ritrae inorridito. Non c'è
scritto altro; non una parola sull'orto e sul giardino. Quando però
Manzoni riscrive il romanzo, aggiunge la descrizione della vigna e del
giardino abbandonato, una aggiunta che prende due pagine. Che per
coerenza dovrebbero rinforzare il senso d'incuria e di rovina; invece
sono due pagine di entusiasmo botanico. Andatele a leggere. È come se
Manzoni si dissociasse da Renzo, il quale, analfabeta, con la mentalità
da contadino (non poteva aver letto Gilles Clément, Manifesto del Terzo
paesaggio) vede solo genericamente erbacce e piante selvatiche, per cui
ci sarebbe passato con la motofalciatrice, il decespugliatore, la
trinciatrice e, fosse già ai tempi nostri e avesse sposato Lucia, ci
avrebbe fatto un pratino all'inglese col dondolo e i sette nani, la
siepina geometrica e i cespugli tosati come cespugli di plastica.
Manzoni invece da questo abbandono è straordinariamente ispirato, anzi
di più, esaltato, come se intuisse improvvisamente, e con due secoli
d'anticipo, l'idea di Terzo paesaggio e di giardino senza giardiniere; e
così invece che un'occhiata generica (come l'occhiata ignorante di
Renzo) si mette a una dettagliata e amorevole descrizione di tutto
quello che c'è cresciuto in quei due anni di libera espansione vegetale,
e si capisce che in questa descrizione ci gode, come fosse appunto un
anticipatore di Gilles Clément e un amante dei terreni dismessi. E
nomina una per una le specie spontanee cresciute nell'orto di Renzo: era
una marmaglia d'ortiche, – dice – di felci, logli, gramigne, farinelli,
avene selvatiche, amaranti verdi, radicchielle, acetoselle..., le
chiama col nome volgare perché il romanzo vuol essere popolare e capito
da tutti, ma si sente il gusto del competente che distingue le erbacce, e
le apprezza più delle monocolture, e potrebbe anche nominarle col nome
scientifico.
Infatti uno studioso del 1937 (Claudio Marani) commentatore
specializzato di questo passo dei Promessi Sposi, precisa che quando
Manzoni dice ortiche intende l'Urtica dioica, quando dice felci è il
Pteridium aquilinum, il loglio è il Lolium temulentum, e così di
seguito: Cynodon dactylon, Chenopodium album, Avena fatua, Amarantus
lividus eccetera; cioè non sono nomi buttati lì a caso; c'è tutta la
contentezza del botanista che vede crescere quello che di solito viene
estirpato, contentezza per gli angoli inselvatichiti o Terzo paesaggio,
importantissimi per la diversità biologica e il futuro del pianeta.
Infatti qualche riga dopo, quando nomina l'uva turca Manzoni non si
tiene più, sembra in estasi, sembra che l'uva turca selvatica
(Phytolacca Decandra secondo Marani) diventi una meravigliosa pianta
d'ammirazione, coi suoi rami rosseggianti – dice Manzoni – i suoi
pomposi foglioni verde cupo, alcuni orlati di porpora e i grappoli
pendenti con le bacche paonazze o porporine o ancora verdi, e in cima i
fiorellini biancastri; segue il tasso barbasso (Verbascum thapsus) che
Renzo ignora e sradicherebbe, mentre Manzoni parla deliziato delle sue
grandi foglie lanose distese per terra, lo stelo dritto, le spighe
stellate di vividi fiorellini gialli; e così continua coi cardi
(Cirisium vulgare), coi vilucchioni (Convolvulum sepium) dalle foglie
ciondoloni e le campanelle candide e molli dell'infiorescenza; la zucca
selvatica (Bryonia dioica) dai chicchi vermigli; il rovo eccetera.
Questa non è la descrizione di uno stato di disgrazia; questo orto
abbandonato è un piccolo angolo del paradiso perduto. Verrebbe voglia di
entrarci, di godere di quello che Gilles Clément chiama il giardino in
movimento (Le jardin en mouvement, 1994, ma Renzo preferirebbe la terra
battuta), che è il giardino lasciato a se stesso, alla spontanea
vitalità vegetale, dove le specie solitamente eliminate prosperano, e si
moltiplica la varietà e diversità, anche con semi portati dagli uccelli
o dal vento che producono piante a sorpresa incredibili. E qui, in
accordo con Manzoni, devo tessere l'elogio dei giardini abbandonati, in
cui si entra di nascosto da un pertugio della siepe o del muro, o dal
cancello malmesso che con una spinta si apre; la casa in abbandono anche
quella ha un suo fascino, spesso con le tracce di chi occasionalmente
ci dorme. Ma il giardino in genere è un pieno trionfo, come si fosse
liberato dall'asservimento all'uomo e fosse esploso in tutta la sua
vitalità. Quando si è ragazzi queste sono oasi di avventura e mistero,
come pezzi del Borneo di Salgari a cui però si arriva in bicicletta.
Si potrebbe d'ora innanzi chiamare questi giardini i Giardini di Renzo, e
sperare che diffondano un nuovo gusto in fatto di giardinaggio; che
cioè si lasci crescere l'erba in tutta la sua gran varietà e in tutto il
ciclo biologico fino al fiore e alla sementa; si lascino espandere le
piante, si lasci sorgere il sottobosco di felci, rovi, ortiche, cicute,
anice, malva, code di cavallo, spade...; il proprietario può tracciarci
in mezzo un sentierino, entrare nel folto con un libretto di botanica in
mano e avere il piacere di riconoscer le piante che non ha piantato,
tornare dalla moglie di corsa, «lo sai cosa è nato nell'angolo tale?», o
può esser la moglie che torna, «prendi il libro, caro, che c'è un
rampicante nuovo che sale sulla gaggia... che c'è un cespuglio di non so
che cosa... che vicino allo scarico della grondaia ci sono certe canne
palustri...». Credo che sarebbero giardini pieni di felicità,
rinsalderebbero i legami di coppia, e anche i bambini avrebbero dove
nascondersi e scappare dai territori della pedagogia, perché i pratini
ben tosati sono una specie di deserto che non insegna niente, simbolo
del moderno deserto interiore, il quale più o meno somiglia a una
moquette.