Ci sono libri che affrontano questioni centrali con tesi provocatorie ma
in qualche modo centrate, se non fosse che arrivano alle loro
conclusioni partendo da premesse sbagliate.
Nel suo ultimo pamphlet, Senza trauma (Quodlibet) Daniele Giglioli
sostiene una tesi che ha fatto discutere: l’onnipresenza del trauma
nelle scritture contemporanee, come dispositivo metaforico del tutto
svuotato di consistenza, immaginato ma privo di un vero rapporto con la
realtà. Da qui deriva una perdita di contatto, un’incapacità della
letteratura di mordere davvero la realtà, rifugiandosi nel folle e
paradossale inseguimento del reale, la “Cosa” che, secondo Lacan, non
può essere simbolizzata, afferrata, detta. Ci si tuffa in un immaginario
fatto di estremo e di pulp, un pastiche dai confini slabbrati e
paludosi in cui tutto si immerge e si confonde. In questo contesto, il
ricorso al trauma è diventato ossessivo, ridondante e del tutto
ingiustificato, in quanto nessuno degli autori citati (Saviano, Scarpa,
Scurati, Genna, De Cataldo, Ammaniti e molti altri) ne avrebbe fatto
realmente esperienza e senza che ciò abbia la minima rilevanza. Il
trauma è una modalità di accesso, un modus scribendi, a prescindere
dalla sua effettiva esistenza. Quindi, se tradizionalmente il trauma
costituisce lo strappo che impedisce di parlare, che riduce al silenzio,
adesso sembra essere diventato l’unica condizione ammissibile di
espressione.
Parto dalle conclusioni, che sono la parte più condivisibile del lavoro
di Giglioli. La letteratura vive sotto il ricatto dell’immaginario, il
rapporto tra la scrittura (come atto di responsabilità e di scelta,
secondo Barthes) e la realtà è soggiogato e disgregato dalla tenaglia di
“scetticismo nichilista” e “realismo ingenuo”, per cui ormai non si può
non essere scettici, iper-critici, diffidenti nei confronti di
qualunque manifestazione di senso, affermazione, pensiero forte (o anche
solo pensiero), ma al tempo stesso beviamo come carta assorbente
qualunque enunciato, immagine, video, articolo, post, tweet. Siamo
schizofrenici, senza filtri e anaffettivi, bulimici e denutriti.
Ingurgitiamo tutto ma non digeriamo nulla, non assaporiamo, non
tratteniamo.
Detto questo – una tesi che comunque ha l’unilateralità di una
sventagliata di kalashnikov – forse potremmo aggiungere che magari gli
scrittori potrebbero (dovrebbero) avere i giusti filtri e la giusta
capacità digestiva per eseguire l’operazione di fotosintesi culturale di
cui abbiamo bisogno. La letteratura non è questo in fondo? Trasformare
l’informe massa linguistica del mondo in frammenti dotati di senso,
idee, poesia, bellezza? Nessuno è davvero più in grado di riscattare
l’esperienza conferendole un valore positivo e testimoniale? Forse i
nostri scrittori (nel senso di italiani) non ne sono capaci, non ci
riescono. Forse non ci sono grandi scrittori in questo momento. Potrebbe
anche essere, ma, se anche fosse, non è un’affermazione dal tremendo
sapore di qualunquismo?
Andiamo a ritroso. Gli scrittori nazionali parlano solo del (attraverso
il) trauma. Non si dà scrittura se non tramite la mediazione dell’evento
traumatico, che tuttavia è sempre più sognato, immaginato e
fantasticato che reale. Nessuno ha un vero e proprio trauma oggigiorno,
nel 2012, in Italia. E questa è l’ennesima pestifera moda culturale e
letteraria del momento. Non avendo veri traumi, gli scrittori li
inventano (autofiction), oppure prendono in prestito quelli della storia
recente per calarli nelle strutture apparentemente ineludibili del noir
e del giallo, trasmutandone così il realismo e abolendo la forza
eversiva del fatto in sé.
Anche qui, bisognerebbe distinguere, analizzare caso per caso. Ma su una
cosa non si può sorvolare. “Nessuna delle generazioni che ci hanno
preceduto ha conosciuto una situazione di maggior agio. Tutto è cura,
tutela, comprensione, diritto alla felicità. La felicità è anzi un
dovere” (p. 8). Farei notare en pessant che questa è un’epoca di guerre
(televisive, mediatiche, ma con morti veri). C’è una crisi che non è
costitutita solo dall’ansia virtuale generata dallo spread, ma da fatti
dolorosamente reali come licenziamenti, cassaintegrazioni, mutui da
pagare, matrimoni che saltano, vite che non si realizzeranno mai,
suicidi. Migliaia di suicidi. Nella nostra società ci sono stupri e
violenze (soprattutto all’interno della famiglia); dipendenze da alcol,
droghe, gioco d’azzardo; malattie fisiche e mentali; discriminazioni,
disagio sociale, emarginazione. Tutto questo non è trauma? Non genera
trauma? Non viviamo forse quotidianamente (anche in maniera riflessa)
l’esperienza del dolore e della ferita?
Altra questione: “Trauma era ciò di cui non si può parlare. Trauma è
oggi tutto ciò di cui si parla” (ibid.). Il trauma è una ferita, uno
strappo, un’interruzione nella continuità dell’esperienza. Giusto. E
quindi esso evoca necessariamente il silenzio, il mutismo coatto, la
vittima come larva sacrificale, come infante. Ma è davvero così? Da un
punto di vista psicologico prima ancora che letterario, il trauma è
necessariamente silenzio? Il trauma è un violento cambiamento, una
lacerazione nello status precedente, ma è anche una riorganizzazione,
una nuova sintesi (anche disfunzionale, certo) ma non una paralisi.
Implica una dolorosa riappropriazione, anche linguistica,
un’elaborazione. Non una costitutiva mutilazione del verbo. Anzi, il
trauma per essere superato deve passare anche attraverso una
riaffermazione verbale del nuovo sé. Primo Levi è stato molto chiaro in
proposito, nella sua critica alla mistica del silenzio.
Proviamo a fare una panoramica forse irrituale ma sana: possiamo
tacciare David Foster Wallace o Sarah Kane, contemporanei dei nostri, di
non aver subito un vero trauma, di essere schiavi dell’immaginario?
Difficile. Zona di Mathias Énard è indebolito o valorizzato dal suo
intreccio di letterarietà esibita e di scrittura dell’estremo? La
fiction è una condizione, non necessariamente svilente, per la presa
della parola. Tabucchi ha scritto “chi testimonia per il testimone?”
Possiamo osservare tutto questo nelle scritture del trauma e della
diaspora, dell’esilio e della migrazione. Tornando in Italia (ma
un’Italia fecondamente marginale e di confine), autrici come Igiaba
Scego, Cristina Ubax Ali Farah o Gabriella Ghermandi non hanno forse
scritto attraverso la lacerazione di un mondo di legami familiari,
sentimentali, storici e culturali e la ricostruzione di un’identità
mobile e diversa, nomade e contrappuntistica (come diceva Edward Said)?
Sono libri scritti in italiano (le prime due scrittrici sono anche nate
in Italia) ma non fanno parte della letteratura nazionale. Chissà
perché.
Il sequestro dell’immaginario da parte dei mass-media è un fatto e
informa qualunque tentativo di reazione possibile. È il contesto in cui
ci troviamo, inutile nasconderselo. E indubbiamente c’è una stereotipia
tematica e stilistica nella letteratura contemporanea, un appiattimento
su una superficie scintillante e poco problematica, ma non per questo si
può gettare il bambino con l’acqua sporca. È un’epoca di inseminazione e
di transizione, come ricorda lo stesso Giglioli, ma ci sono già adesso
voci forti e consapevoli, capaci di valorizzare la propria marginalità e
vulnerabilità. Sparare a zero contro tutti – per di più portando pochi e
generici esempi – significa fare una generalizzazione pericolosa che
non giova al dibattito culturale. È un po’ facile così.