Recensioni / Il capitalismo è una religione?

Questa domanda potrebbe racchiudere il senso dell’intera riflessione compiuta da Elettra Stimilli nel suo: “Il debito del vivente. Ascesi e capitalismo” (Quodlibet, 2011); l’intero libro, infatti, è imperniato su una visione autoreferenziale e del tutto autofinalistica della produzione capitalistica, considerata un’impresa irrazionale a sé stante. A questo proposito, la Stimilli richiama la distinzione aristotelica tra poiesis e praxis: mentre col primo concetto si intende l’agire produttivo propriamente detto, il cui risultato è diverso dall’azione stessa in quanto mirante e avente come risultato la realizzazione fattuale di una determinata opera, il secondo inerisce a una finalità senza scopo in cui il fine è proprio l’azione umana stessa, nel libero agire dell’attore:  agire, fine a sé stesso, serve dunque solo a chi agisce per realizzare sé stesso come soggetto individuale o collettivo, e non è mezzo per produrre una cosa esterna. Da qui, l’ulteriore inquadramento, con la lente di ingrandimento foucaltiana, dell’indebitamento moderno, considerato condizione ontologica autofinalistica.

Avvalendosi della teoria weberiana sull’origine del capitalismo e del suo corollario ascetico, l’autrice si sofferma quindi sulla possibilità che il processo capitalistico sia completamente slegato dalle acquisizioni specifiche, configurandosi, invece, come processo “immateriale” cui le masse risultano assoggettate più o meno consciamente, in una continua ricerca dell’impresa senza scopo; un agire irrazionale attraverso il quale il vivente umano si auto-rapporta, autotelicamente, a sé stesso. In quest’ottica, l’utilitarismo liberale classico viene visto come una copertura, una costruzione teorica atta a giustificare attività utili a nessuno, ma quasi mistico-maniacali o comunque semi-patologiche.

Pur rimarcando l’eleganza dello scritto dell’autrice, ci sembra davvero di poter affermare, senza timore di smentita, come l’opera metta in risalto la scarsa conoscenza della scienza economica e delle dinamiche di mercato da parte della Stimilli; vediamo di elencare le problematiche rilevanti del saggio.

Inserendosi nel filone della critica anti-mercato (già parecchio folto a dir la verità), dove, con alternanza ciclica si addossa al capitalismo la colpa di impoverire le masse, poi invece di renderle troppo opulente e consumiste, oppure ancora di sprecare le risorse naturali, l’autrice espone un capo d’accusa nuovo secondo il quale tale sistema sarebbe questa volta responsabile dell’“indebitamento eccessivo” e della “finanziarizzazione” dell’economia.

Orbene, pur rimarcando l’intrinseca imperfezione di un processo sociale spontaneo quale il mercato, composto di esseri umani (e quindi fallibile), bisogna ricordare, e purtroppo non lo si fa spesso, come i grandi problemi odierni siano stati causati proprio da interventi di ampia e costante pianificazione politica, secondo logiche coercitive e quindi anti-mercato o comunque manipolatorie dello stesso.

Per quanto riguarda l’eccessivo indebitamento degli Stati, davvero sembrerebbe assurdo addossarne la responsabilità al capitalismo: l’indebitamento insostenibile è una caratteristica necessaria dell’odierno welfare state, in quanto esso si nutre di promesse di privilegi legali, di opere pubbliche, di elargizione di sussidi (che molto spesso scambia con voti elettorali) che sa di non poter mantenere se non scaricando il peso delle stesse sulle generazioni future, attraverso un ricorso massiccio all’indebitamento e ad un’imposizione fiscale sempre più forte sugli uomini di domani. Tutto ciò, purtroppo, ha molto poco a che fare col mercato; si tratta, infatti, di processi squisitamente politici ed antieconomici supportati da meri interessi corporativi o da logore teorie keynesiane di “sostegno alla domanda”, “effetto moltiplicatore”, “deficit spending”, etc… (come non ricordare. a proposito delle attività senza scopo e puramente irrazionali, le indicazioni di Lord Keynes di scavar buche e riempirle a spese dei contribuenti).

Inoltre oggi assistiamo ad un intervento sempre maggiore degli istituti di pianificazione monetaria nella vita economica dei paesi stessi: esse creano moneta ex nihilo, prestandola a tassi risibili alle banche commerciali; queste ultime, godendo del privilegio della riserva frazionaria, moltiplicano a loro volta tale liquidità iniettando credito sostanzialmente inesistente nell’economia, oppure (come è successo con le operazioni di LTRO odierne) acquistano direttamente altri titoli del debito pubblico  al fine di mettere qualche pezza nel breve periodo, concedendo ulteriore tempo agli apparati statuali, nella speranza che la crisi si risolva, in un modo o nell’altro.

Tali politiche inflazionistiche innestano cicli economici accentuati di crescita e recessione e impediscono la necessaria eliminazione dei malinvestimenti, verificatisi a causa degli errati segnali propagati dal denaro a basso costo (il tasso di interesse, infatti, deve essere sempre collegato alla quantità di risparmi effettivamente esistente, e non modificabile attraverso un puro aumento dell’offerta di moneta). Inoltre esse operano una continua redistribuzione di potere d’acquisto dal ceto produttivo alla classe politico finanziaria che può spendere il denaro “fresco di stampa” (effetto Cantillon), il più delle volte in programmi assistenziali o bellici, prima che il livello dei prezzi salga.

Il monetarismo e il keynesismo, teorie economiche che vanno per la maggiore, neppure considerano l’ipotesi che sia invece il mercato a scegliere la moneta (come è stato l’oro per secoli), la sua quantità in circolazione e il tasso d’interesse. L’unica Scuola oggi ad avere una teoria della moneta e del credito autenticamente di mercato è invece la Scuola Austriaca di Economia, che vanta tra i suoi esponenti personaggi del calibro di Carl Menger, Ludwig von Mises, Friedrich von Hayek (citato dalla stessa autrice nell’introduzione), Murray Rothbard. Più in generale, questa scuola non si pone nei confronti della realtà economica in maniera empirica, pretendendo di applicare alla stessa modelli statistico-matematici astratti, ma si avvale di una logica deduttiva a priori, distinguendosi nettamente dall’impostazione positivista delle altre correnti economiche, pur avendo con esse alcuni punti di contatto.

All’origine del declino delle economie occidentali vi è poi l’arretramento dei diritti di proprietà  davanti a una legislazione statale omnipervasiva. Quando il possesso di qualsiasi mezzo di produzione (perfino di un piccolo pollaio) è sottoposto a regolamenti comunali, leggi regionali, nazionali e norme europee,  a volte tra loro contraddittorie, la proprietà privata viene svuotata di qualsiasi contenuto. Insomma il capitalismo pare un ricordo del passato; e se non è morto del tutto, sta esalando gli ultimi respiri sotto il peso di socialdemocrazie corporative anch’esse destinate a perire, come ogni forma di parassitismo esasperato, assieme all’organismo ospite.

Dopo questo breve excursus, che speriamo sia la base di partenza per ulteriori approfondimenti da parte della Stimilli, soffermiamoci sull’idea centrale del saggio: il capitalismo come religione, il processo economico come meccanismo autofinalistico ed irrazionale.

Qui, restando in tema, sembra davvero esservi molto poco di “fattuale” e tanto di elegante divertissement. Una visione del genere mostra davvero poco rispetto per ciò che, comunque la si veda, resta l’attività umana per eccellenza e un fattore produttivo fondamentale: il lavoro. Senza di esso non vi è produzione, senza produzione non vi è soddisfacimento dei bisogni umani, senza questi ultimi non può esservi vita. Il fatto che l’autrice possa dedicare le sue forze ad una simile opera dimostra quanto siano grandi i privilegi che un sistema basato sulla divisione del lavoro, l’accumulo di capitale e la libertà economica porta con sé. Per certi versi, questa visione rimanda a quella mentalità anticapitalistica cui von Mises dedicò un saggio più di 50 anni fa, nel quale egli individuava l’avversione degli intellettuali al capitalismo come frutto, molto spesso, di invidia, giacché, in questo sistema, essi si sentono meno riveriti e remunerati del dovuto e poco protetti, essendo il capitalismo incentrato sulla competizione e la concorrenza. Si tratta di una mentalità che ha origini antichissime: lo stesso Socrate, il cui tenore di vita era anche frutto della libertà economica e commerciale ateniese, dedicava le sue forze allo svilimento della produzione e del commercio di cui la relativamente libera Atene godeva.

L’aspetto invece “religioso” del liberalismo si può forse rinvenire a nostro parere nella intransigente difesa dell’individuo e dei suoi diritti di proprietà. Chi, ad esempio, affronta un autore come Rothbard, nell’Etica della Libertà, scopre una difesa di tale diritto a dir poco oltranzistica. Questa è fondata sulla ricerca di una morale universale di non – aggressione e quindi su relazioni puramente volontarie che escludano qualsiasi rapporto di imposizione legale non consensuale. È in questo nucleo di assoluto rispetto del prossimo (che può sembrare una versione secolarizzata del cristianesimo) che, per quanto raramente ammesso in modo esplicito, si possono ricercare le fondamenta metafisiche del liberalismo e ancor più del libertarismo contemporaneo. In tale ottica è lo Stato, il  monopolio della violenza, la minaccia alla convivenza civile, un qualcosa da limitare in tutti i modi possibili e immaginabili, lasciando alla società la possibilità di “sbizzarrirsi” e sperimentare forme diverse e spontanee di aggregazione sociale e politica, laddove invece per il socialista e il pianificatore lo Stato stesso rappresenta la proiezione della società stessa (con tutte le conseguenze teoriche e storiche che conosciamo); una sorta di, riprendendo Hegel, incarnazione divina.

In conclusione, l’opera della Stimilli risulta, tutto sommato, godibile, elegante e ben scritta. Peccato  si tratti, però, di una costruzione artificiale che molto poco ha a che fare con la realtà, segnata come è dalla mancanza di una solida teoria economica e dalla presenza di luoghi comuni anti-capitalismo ed anti-mercato che non trovano riscontro fattuale alcuno. Tra i suoi pregi può forse esservi quello di non delineare una pars costruens che viene lasciata all’immaginazione del lettore; e visto che per l’autrice anche un Marx apparterrebbe ai feticisti del potenziale produttivo capitalistico può essere che essa aspiri, invece che alla militarizzazione del lavoro, a una umanità questa volta obbligata a un ozio contemplativo coattivo (sulle cui conseguenze è meglio sorvolare…).

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