«Esiste un grado di miseria il quale fa dimenticare ogni riguardo e
ammutolire ogni sentimento» e «in tal caso sarebbe meglio lasciarsi
morire di fame»; tuttavia «possono darsi circostanze che impediscono a
uno di fare del proprio corpo l’ancora di sicurezza da buttare in acqua
dal relitto di questo mondo», scriveva Georg Büchner in una
letteraantologizzata da Walter Benjamin nel suo Uomini tedeschi. Mi sono
venute in mente queste lucidissime parole, leggendo l’ultimo saggio di
Elettra Stimilli: lo scavo alla ricerca delle radici del debito del
vivente, infatti, altro non è che elaborazione ‘loquace’ di una reazione
alla crisi economico-sociale che sta investendo l’esistenza di ciascuno
di noi.
La scrittura, di per sé, è sempre ‘in debito’ (come ha da tempo chiarito
l’antropologa Clarisse Herrenschmidt) nei confronti della vita del
passato, ma anche di quella del presente. E l’indagine della Stimilli
mostra come tutta la storia della filosofia sia permeata nel profondo
dalla consapevolezza che l’uomo è un ‘essere-in-debito’. La struttura portante del discorso è il passaggio dall’«ascesi
intramondana» protestante all’agire strumentale del dominio economico,
che Max Weber tratteggia nell’Etica protestante. Insegna Weber che la
strumentalità dell’azione umana, finalizzata all’individuazione di mezzi
per scopi indicati dagli interessi e volti alla ricerca dell’utile
individuale, presuppone un agire autotelico, che ha il fine in se
stesso, indipendente dall’utilità e dall’interesse del singolo
individuo, e che è il motore principale dell’impresa capitalistica.
S’intravede, certo, l’ombra di Aristotele: nella distinzione delle
diverse forme di epistème, il filosofo greco aveva descritto la ‘prassi’
(etica e politica) come quel tipo di scienza nella quale - a differenza
di quella ‘teoretica’ e di quella ‘poietica’ - non c’è rapporto tra
‘progetto’ e ‘realizzazione del progetto’. L’agire pratico è, cioè,
improduttivo, non ha valore in rapporto al fine che deve realizzare
perché ha il fine in se stesso. E in un processo che è fine a se stesso
ci immettono sia l’agire ascetico che il capitalismo.
L’ascesi - intesa come «autodisciplina» e «controllo metodico
dell’esistenza» che differisce la gratificazione immediata - è la
condizione che rende possibile, per l’uomo, di investire non sulle
singole ‘opere’ e sui loro effetti, ma su una prassi, sulla capacità
dell’uomo di dominare razionalmente il mondo, che non ha altro fine se
non in sé. Tale ‘condotta di vita’ è il modo attraverso cui la vita
umana, a partire dalla capacità distruttiva che le appartiene, trova la
possibilità di ricrearsi continuamente e di autosussistere (secondo una
lettura che coniuga il Nietzsche di Deleuze con il Freud dell’Al di là
del principio di piacere). A questa pratica religiosa è strettamente
connessa la struttura capitalistica, che si basa sul differimento dei bisogni e
sull’accumulazione di ricchezza al fine di investire e produrre sempre
maggiore ricchezza. Come appunta il giovane Benjamin nel 1921, «il
capitalismo è la celebrazione di un culto sans rêve et sans merci»:
nelle forme capitalistiche di produzione, la soddisfazione dei bisogni
finisce per identificarsi con una forma di indebitamento fine a se
stesso, secondo una logica del puro dispendio.
In questa ricerca filosofica, che intreccia economia e patristica,
antropologia e teologia, la Stimilli fa affiorare la condizione
d’insolvenza incolmabile, di debito e colpa strutturale, in cui l’essere
umano si trova. La sua analisi vuole essere una «lettura del presente»,
in cui impera una «forma estrema di godimento e di consumo», che «non
si contenta d’altro che di sé e, come tale, non è volta alla
soddisfazione di bisogni, né tanto meno mira a dilazionarne il
soddisfacimento in vista di un maggiore profitto, ma presuppone una
sorta di costante esercizio» in grado di alimentarla. Il finale del
saggio lascia sottesa la domanda: come praticare l’ascetismo in questo
scenario? Aggiungo: è necessario praticarlo? E sebbene la Stimilli
indichi una possibile via riprendendo le riflessioni sull’ascesi come
«tecnica di vita» dell’ 'ultimo’ Foucault, la domanda non può che restare
aperta, dato che ciò su cui verte è proprio ‘questo’ nostro tempo,
‘questa’ nostra storia, e nella risposta ne va, quindi, di noi e della
nostra vita.
In un panorama come quello moderno, dominato da un servilismo idolatrico
nei confronti della tecnica e dell'economia, riscoprire il ruolo
dell’asceta è sicuramente un punto di partenza. Già il Nirvana di
Schopenhauer (grande assente nel saggio!) si configurava come capacità
di astenersi e ‘progettare’ il godimento. Ma l’ascesi deve ricondurre
alla vita. L’asceta, certo, è colui che pratica la solitudine, non
fuggendo dal mondo e non rimanendone neanche catturato, ma è anche colui
che, seguendo la Regola, ascolta gli altri: comprende se stesso e il
mondo. E comprendere il mondo significa comprenderne il sistema di
contraddizioni che lo costituiscono. In questo sistema si
colloca anche il Politico. Ma in Italia, almeno da una generazione, la
politica è assente e lo Stato si trova privo di un orientamento, di una
direzione. Nel capitalismo, certo, la crisi è fisiologica, perché il
capitalismo è rivoluzione permanente. Ma è necessario che il governo di
uno Stato adotti delle regole per affrontare e superare la crisi. La
mancanza della politica lascia spazio al gioco della finanza
speculativa, che oggi decide del debito pubblico degli Stati. I mercati
finanziari, spesso poco trasparenti, privi di una regolamentazione e,
perciò, fuori da ogni controllo, tolgono, spesso, la ‘fiducia’ agli
Stati declassandoli e la politica statale si sforza – non sempre con
esito positivo − per riottenere la ‘fiducia’ persa. Ed è proprio la
‘fede’, secondo Weber, ciò che dona legittimità al potere economico o
governamentale che sia. Ma se tale ‘fede’ nei mercati venisse messa in
dubbio e, addirittura, mancasse?