Recensioni / Quando i medici decapitarono Boscoli

Torna disponibile, per i tipi di Quodlibet, la narrazione delle ultime ore di vita di Pietro Paolo Boscoli. Di nobile famiglia fiorentina, il suo amico Luca Della Robbia, umanista, omonimo e parente dello scultore, ce lo descrive come “un giovane uomo di circa 32 anni, biondo e bello e di gentile aspetto”. Coinvolto in una congiura ai danni dei Medici, il giovane fu condannato a morte insieme ad Agostino Capponi e decapitato la mattina del 23 febbraio del 1513.
Durante la lunga veglia che precedette l’esecuzione, Boscoli, recluso al Bargello, fu confortato dal dialogo con il confessore, il domenicano fra Cipriano, e con l’amico Luca, che in quanto membro della Compagnia de’Neri, la confraternita che assisteva i condannati, poté avvicinarlo, registrandone le ultime parole. Il risultato, oltre l’evidente valore documentario per comprendere il rapporto degli umanisti con la loro fede, offre al lettore un’innegabile qualità poetica. In un suo puntuale intervento, Marco Pacioni, il curatore della nuova edizione, spiega come per questo lo scritto fosse caro alle riflessioni del compianto Michele Ranchetti, che poco prima della sua scomparsa ne progettava la ripubblicazione. Accortamente rinnovato nella mise en page, che ne esalta la natura dialogica, modernizzato nella punteggiatura e corredato di note esplicative, il breve testo è arricchito, oltre che dal contributo del curatore, dall’introduzione di Adriano Prosperi e da un saggio critico di Delio Cantimori dedicato al rapporto contraddittorio tra Rinascimento e religione. “Cavatemi dalla testa Bruto” è la frase di Boscoli che forse meglio
riassume il nodo drammatico della sua preparazione alla morte.
L’aspirante tirannicida non è spaventato dalla propria fine, che riesce ad accettare grazie alla mediazione dei filosofi classici, ma piuttosto dalla difficoltà di aprire la determinatezza delle proprie
ragioni a un sentimento che gli consenta un reale abbandono in Cristo. Se, come confessa, ne può concepire più facilmente la divinità che l’umanità, si rende perciò stesso conto dei limiti di un
pensiero che non può rifugiarsi nell’irrazionale, ma neppure accontentarsi della consolazione di una mera ragionevolezza.
Lo sforzo incessante del condannato e dei suoi consolatori nel colmare questa insufficienza costituisce la nervatura lirica che percorre il testo. Forse ha ragione Cantimori quando nota che per lo spirito di Boscoli è ormai tardi e che troppo a lungo “la forma estetica ha tenuto la fede vera in un angolo oscuro della sua anima.” Andrà al patibolo desiderando invano “grandissima congiunzione con Dio.” A chi sopravvive, come Della Robbia, resta il problema di riconciliare definitivamente senso e storia in un ordine narrativo che sia addirittura vicenda esemplare. Nel finale, fra Cipriano lascia capire che per San Tommaso il tirannicidio è legittimo, almeno in quelle circostanze, ma la beatitudine del Boscoli non può che rimanere dubbia e l’ombra di Bruto, fra rigore e affetti, continua a proiettarsi inquietante fin sulle nostre teste.