Recensioni / I giardini-tipo di Gilles Clément

Se si chiede a un autore come Gilles Clément, giardiniere paesaggista poliedrico, di raccontare il profilo e la storia del suo soggetto in nove faccette - è questo l’impianto della collana francese «Un brève Histoire du...» dov’è naia la sua ultima opera —, piuttosto che una Breve storia del giardino (Quodlibet, pp. 129, € l4.50) si ottiene un ibrido di suggestioni, di resoconti di viaggi e di incontri alle pi1Z1 diverse latitudini e nel corso degli anni, di riflessioni su nodi teorici e esperienze di lavoro, un racconto fantastico come capitolo conclusivo, alcuni punti fissi ricorrenti e molte domande. Un modo di procedere dove l’interrogarsi a partire dall’esperienza porta ad approntare concetti metafora, spesso sul filo del paradosso, per poi di nuovo perseverare sperimentalmente. Un interrogarsi iterativo, incrementale, che induce, piuttosto che a prospettare risposte, a porre nuove questioni, più attuali, stringenti delle risposte impossibili cui aspiriamo. Quanto alle suggestioni, vagano quelle del giardino balinese di Ubud, giardino mentale, giardino verticale, dove la verticalità e però quella del loto che riafferma la preminenza della vita su ogni architettura connettendo suolo, acqua, aria, tenebre e luce; valgano quelle ispirate dai giardini della notte (la folgorazione della visita alla grotta preistorica Chauvet interpola le riflessioni sul vocabolario della grotta dei giardini, spazio di libertà espressiva, dalla testa di gigante che ci inghiotte a Bomarzo al monumento al Inegativo delle Buttes Chaumont) o sollecitate dal giardino degli astri (a partire dalla visita ai «giardini astronomici» Jantar Mantar, osservatori celesti dell’impero Mogol).
È nel corso di un’esplorazione in Africa, sulle tracce di una farfalla femmina di Papilio antimachus, che Clément intuisce l’accedere del primo giardino, quello dell’uomo che si fa stanziale. Glielo mostrano i pigmei del Camerun nomadi sedentarizzati: un recinto dove si decide di proteggere «il meglio». Un giardino alimentare. «L’orto è il primo giardino. È atemporale poiché non soltanto fonda la storia dei giardini, ma la attraversa e la segna profondamente in ogni suo periodo». Dai giardini di Tebe all’Alhambra, da Villandry al Potager du Roi, a La Roche-Guyon del quale cura il progetto di ripristino interrogandosi su come conciliare forma e funzione, disegno storico e gestione ecologica. E se la faccetta del capitolo La visione romantica (in epitome, il parcc di Ermenonville e Rousseau) ancora racconta di una relazione che, ordinandola, interroga la natura e nel giardino ne «esalta e drammatizza gli elementi, ma non ne coglie ancora tutta la complessità», con l’era ecologica si afferma la consapevolezza che nella fitta trama di relazioni e scambi tra viventi il vincolo del giardino coincide con quello del pianeta e occorre quindi dispiegare un giardinaggio di riparazione. Che tragga magari ispirazione dai meccanismi di adattamento coevolutivo apparecchiati dal «genio giardiniere» della natura.
Chiamato a proteggere la vita nei nostri futuri giardini «reliquiari», provoca Clément, il giardiniere nutrito di sensibilità e sapere ecologico, con il passo attento alla durata, per farsi interprete del linguaggio delle invenzioni della natura, dovrà far leva sul profilo di artista.