Recensioni / La Restanza. Intervista all'antropologo Vito Teti

Vito Teti è ordinario di Antropologia Culturale presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università della Calabria, dove ha fondato e dirige il Centro di Antropologie e Letterature del Mediterraneo presso il dipartimento di Filologia. E' responsabile in Italia dell'I.C.A.F. “Associazione Europea di Antropologia dell'Alimentazione”. Il motivo della melanconia e della nostalgia, l'antropologia dei luoghi e dell'abbandono, dell'alimentazione, dell'emigrazione, della letteratura sono al centro della sua scrittura. Molti suoi lavori sono stati pubblicati in lingua inglese, francese e spagnola. Il suo ultimo libro s'intitola Pietre di pane. Un'antropologia del restare (Quodlibet): testo letterario, di narrativa e di memoria, con racconti di viaggio emigrazioni. Un libro che ti cattura e ti porta passo passo, in giro per i luoghi dello scrittore, raccontando magistralmente la complessità della “restanza”, facendoci scoprire che “l'essere rimasto, non è atto di debolezza né atto di coraggio, è un dato di fatto, una condizione, ma anche l'esperienza dolorosa e autentica dell'essere sempre fuori posto”.

Perché ha sentito l'esigenza di scrivere questo libro, perché usare queste due parole: “pietre” e “pane”?
Pietre di pane è un espressione che adopera Corrado Alvaro, lo scrittore calabrese di spessore europeo che, in una nota di viaggio, parlando delle fiumare fa l’accostamento tra le pietre e le forme del pane, le pietre che assomigliano al pane ed il pane che a volte s'indurisce come la pietra. Il pane è elevato a simbolo del bene primario, della necessità, ma anche della sacralità del “mangiare”. Il pane era un alimento base e aveva anche valenze rituali e religiose. Per la pietra c' è un riferimento alla durezza, all'asprezza, alla fatica, e nello stesso tempo c'è un riferimento al radicamento, alla solidità, all'idea della potenza del restare.
L'uomo della società tradizionale è stato descritto da Alvaro come un uomo in fuga. L' erranza è la condizione dell'uomo della società tradizionale del Sud. Già da molto tempo avevo segnalato che l'emigrazione non è soltanto una condizione di chi parte ma anche di chi resta. Esiste una ricca letteratura sul rapporto tra partiti e rimasti, spesso visti in contrasto tra di loro. Partire e restare sono, in realtà, due dimensioni, due condizioni, due verbi inseparabili, l'uno presuppone l'altro. Paradossalmente, oggi, che l'emigrazione tradizionale è finita e noi facciamo i conti con l'immigrazione, suggerisco che forse restare è quasi più faticoso del partire di una volta, perché chi resta sperimenta la condizione della “solitudine”,
dell'incomprensione, dello straniero in patria, perché intanto il paese è cambiato.
Chi resta vive l’inedita esperienza dei paesi che si sono spopolati, dissolti, sono a rischio estinzione: un grande problema per chi è rimasto ma anche per chi è partito. In qualche modo Pietre di Pane è giocato su questa ambivalenza, sulla sofferenza di chi resta e di chi parte, di chi torna ed è poi costretto a ripartire. Ho un idea dell’identità mobile, dinamica, aperta, che in qualche modo riguarda sia chi è rimasto che chi è partito.

Ci può spiegare cos'è l'etica della Restanza?
Adopero questo termine perché restare non è un fatto di pigrizia, di debolezza : dev'essere considerato un fatto di coraggio. Una volta c'era il sacrificio dell'emigrante e adesso c'è il sacrificio di chi resta. Una novità rispetto al passato, perché una volta si partiva per necessità ma c'era anche una tendenza a fuggire da un ambiente considerato ostile, chiuso, senza opportunità. Oggi i giovani sentono che possano esserci opportunità nuove, altri modelli e stili di vita, e che questi luoghi possono essere vivibili . E' finito il mito dell'altrove come paradiso. L'etica della restanza è vista anche come una scommessa, una disponibilità a mettersi in gioco e ad accogliere chi viene da fuori. Noi adesso viviamo in maniera rovesciata la situazione dei nostri padri e dei nostri nonni. Un tempo partivamo noi, oggi siamo noi che dobbiamo accogliere. Etica della restanza si misura con l'arrivo degli altri, con la messa in custodia del proprio luogo di appartenenza, con la necessità di avere riguardo, di avere una nuova attenzione, una particolare sensibilità, per i nostri luoghi. A volte facciamo l'elogio dei luoghi e poi li deturpiamo: quindi quest'etica del restare comporta anche una coerenza tra la scelta di rimanere e quella di dare, concretamente, un senso nuovo ai luoghi, preservandoli e restituendoli a una nuova vita...