Perché vale la pena di rubare un pomeriggio alla vita e sedersi a
leggere, dalla prima all’ultima d’un botto, le 130 pagine della Breve
storia del giardino di Gilles Clément? Perché è un diario di viaggio,
un’autobiografia, un trattato, una raccolta di storie e di descrizioni
di luoghi, un manifesto, il racconto di una teoria costruita
sull’esperienza diretta di Clément nella sua attività decennale di
giardiniere planetario. Il libro è tutte queste cose, una dopo l’altra,
una insieme all’altra, nei nove capitoli che fanno confluire la nostra
attenzione su concetti puntuali e poi la diluiscono in visioni allargate
che lasciano percepire nitidamente parti più o meno remote del mondo.
Senza immagini, con il solo strumento visionario della narrazione.
Così, per fissare nella mente il senso profondo del “primo giardino”,
siamo con Clément, nel 1974 e su una Renault 4, in viaggio tra Gabon e
Cameron meridionale sulle tracce della farfalla-moglie, timida e
invisibile, del Papilio Antimachus, “immenso aliante, giocattolo quieto
nell’aria tropicale”. Ma soprattutto alla ricerca di un contatto con i
pigmei, tra gli ultimi popoli nomadi della terra, proprio allora indotti
alla sedentarizzazione dalle difficoltà che indebolivano le loro
esistenze quiete e fragili, e dall’impatto spesso violento con forme
prevaricanti di assistenza. “Il primo giardino è quello dell’uomo che ha
deciso di interrompere le proprie peregrinazioni”: incontrare i pigmei,
allora, visitare i loro primi insediamenti stanziali, poteva
significare assistere a questo momento fondativo. È quanto avviene. I
Papilio Antimachus non appaiono, ma Clément è portato per mano da un
pigmeo davanti a un recinto di bambù che protegge 3 piante di arachide, 5
di manioca, un banano e alcune piante di taro. “Probabilmente il
giardino più sparuto, più embrionale che abbia mai visto. E anche il più
forte”. Il primo giardino è alimentare, è un orto. Fin dalla sua prima,
esile, apparizione un bene prezioso da proteggere, in continua
evoluzione.
Così, poi, dopo altri giri, altri recinti, altro luoghi disegnati dal
lavore della natura e dell’uomo, ci muoviamo nei “giardini della notte” –
luoghi sepolti, caverne, cripte, grotte. “La grotta è uno spazio di
libertà”: se i giardini rappresentano visioni del mondo, le grotte
raccolgono i segni dell’inconscio, “interrogano il sogno”. “I messaggi
d’emergenza si scrivono di notte”, la notte è il buio delle cave
paleolitiche, è poi quello delle grotte artificiali, ed è oggi quello
dei sotterranei con i muri di cemento inscritti dai graffiti. Con una
lettura parallela tra dentro e fuori, luce e oscurità, disegni al sole e
figure nell’ombra, Clément racconta Boboli e la Gamberaia, le
Tuileries, i giardini del Luxembourg e di Versailles, e ancora il Désert
de Retz ed Ermenonville, Bomarzo e Linderhof, fino alle Buttes
Chaumont, le cave di gesso diventate parco-montagna nella Parigi
“risanata” da Haussmann. Una progressione che termina dove avrebbe
potuto iniziare, con un viaggio nel buio di 32.000 anni fa, quello della
Grotta Chauvet in Ardèche – la grotta dei sogni dimenticati filmata da
Werner Herzog. La rappresentazione primitiva dell’essenza vitale del
mondo animale – dipinta sui veli di calcite e tra i cristalli
all’interno della grotta – si combina, all’esterno, con la visione del
paesaggio invaso di vegetazione sclerofilla – un meraviglioso giardino –
che lo sguardo, inizialmente accecato, mette a fuoco tornando alla
luce.
E poi, ancora, osserviamo il “giardino degli astri”, e anche come le
energie cosmiche regolino le vite degli esseri viventi, e con loro
quelle dei giardini. Così l’agricoltura biodinamica, e da sempre i
lavoratori della terra e i veri giardinieri, riconoscono e rispettano i
ritmi delle stelle e dei pianeti, soprattutto della luna, e a essi
accordano con precisione il calendario delle loro colture. Questo
rispetto discende da una visione, è frutto di un atteggiamento: “Essere
attenti al cielo significa accettare di collaborare con gli astri,
rinunciando al progetto di un qualsiasi dominio dell’uomo sulla natura”.
Come altrove, in questo piccolo libro, con due righe filanti tra una
pagina e l’altra, poco prima della definzione di un nodo lunare o della
geometria di un’aiuola, Clément esprime un presupposto imprescindibile,
una scelta etica profonda e definitiva. Dopo avere stabilito un punto
fermo, qui prosegue con la descrizione, in alcuni passaggi precisa come
un rilievo topografico, dei Jantar Mantar fatti costruire da Jai Singh
II nell’India del Nord, giardini astronomici per entare nel giardino
dello spirito, per comprendere il cosmo.
Dopo un capitolo intitolato “Il sogno della lumaca” – che parla di
gusci e di protezione, di tempo e di lentezza – e prima di lasciare
spazio a una breve bibliografia ragionata, Clément conclude, un po’ a
sorpresa, con “Il documento a punti”, un racconto
fantascientifico-apocalittico che in qualche modo condensa in forma di
fiction tutto il contenuto del libro. In un mondo futuro, il cui
territorio è segnato dalla costruzione ossessiva di barriere tra i
popoli (i Muri Anti-Rom) si sono formati, quasi per paradosso, dei
vitalissimi “corridoi biologici”, ovvero dei parchi lineari che occupano
lo spazio residuo tra le muraglie di cemento, le terre di nessuno
residue tra le varie, blindate, regioni geografiche. Risvolto imprevisto
di una politica planeteria e coercitiva di contrasto all’ibridazione e
al libero movimento, queste strisce di terreno abbandonate a se stesse
sono diventate riserve preziose di biodiversità. Compreso tale scenario,
seguiamo il giardiniere Jordi, custode devoto e consapevole di uno di
questi parchi, nella sua angosciosa avventura all’interno di un
futuribile fitoshop in cui si è avventurato alla ricerca di una
Schizophragma Hydrangeoides, ignaro che questa sua iniziativa innocente
lo costringerà a un processo di redenzione. Il finale è, appunto, un
finale, ed è ovviamente meglio lasciarlo alle parole di Clément.
[Leggendo solo ora altre recensioni del libro, ritrovo citati molti
degli episodi di cui ho qui parlato. Questo non mi dispiace, perché mi
sembra una conferma dell’efficacia della scrittura di Clément (credo
ottimamente conservata nella traduzione italiana) che riesce a fissare
nella memoria di chi lo segue in questo suo viaggio una serie di
immagini quasi indelebili. Un po’ come accade per le scene madri di un
film.]