Recensioni / La ricostruzione del Crystal Palace

La riflessione sul progetto urbano contemporaneo è al centro del dibattito disciplinare, non solo per i caratteri che hanno assunto le “trasformazioni della città europea degli anni 0” ma soprattutto perché le risposte che sono state avanzate in questi anni appaiono disorganiche, contraddittorie e piuttosto che costituire un caposaldo ed un indirizzo per le pratiche nel maggior numero dei casi disorientano e confondono. Le posizioni si ricorrono, si contrastano, non sembra emergere una visione condivisa su quanto è andato affermandosi negli ultimi anni nei processi di trasformazione delle città europee. È evidente una rottura rispetto al passato e al piano urbanistico tradizionale; né è palese la dimensione circoscritta che evoca il contesto ma di cui non cerca più alcuna integrazione o relazione; ne è ormai comunemente accolta la “natura” privata ed il possibile mancato equilibrio tra istanze pubbliche e interessi privati; si è ormai persuasi che la sua definizione progettuale debba avvenire attraverso una comunicazione viziata da rendering ed immagini che poco hanno a che fare con quanto verrà effettivamente realizzato, anche in questo caso richiamando scenari e suggestioni che devono persuadere piuttosto che far partecipare. È ineluttabile che la trasformazione della città si compia attraverso il progetto urbano, non avendo il piano e l’urbanistica risolto ancora la loro crisi legata agli insuccessi della regolazione onnicomprensiva e prescrittivi.
All’interno di questo dibattito, Antonio Di Campli intende proporre una serie di considerazioni che aiutino a fare un po’ di ordine su alcune questioni che sembrano dominare nelle pratiche di intervento nella città odierna, fornire spunti di riflessione critica su alcuni aspetti del progetto contemporaneo per avanzare poi una serie di indicazioni su come si potrebbero meglio definire le pratiche del progetto urbano per un’azione più adeguata ed efficace all’interno della città occidentale, dopo averne sottolineato alcuni  esiti critici: esclusione sociale, disuguaglianze spaziali, l’indotto declino dello spazio pubblico (segmentato, banalizzato, trasformato in un luogo spesso ostile e faticoso), effetti spesso di una indifferenza del progetto alle reali condizioni rubane e all’automatismo che ne connota spesso l’elaborazione.
Il punto di partenza della discussione è proprio la definizione di cosa sia divenuto lo spazio contemporaneo (un luogo di conflitto, “spazio di consumo sovra controllato”, spazio estetizzato ma che mostra “prestazioni e funzionamenti insoddisfacenti, semplificati”, luoghi segnati “da crescenti processi di espulsione, il cui tessuto riflette un processo di accrescimento di disuguaglianze sociali”, p. 16); di come lo spazio urbano sia stato trattato dal progetto contemporaneo (secondo un dominante “urbanesimo liberale, segnato da una particolare attenzione ala dimensione culturale dello spazio e volto alla ricerca di strategie di controllo spaziale e crescita economica attraverso i valori o l’identità del territorio”, p. 14), assecondandone (“in maniera scarsamente critica”) i processi di sperequazione sociale indotti dalla globalizzazione, accogliendo di quest’ultima il “linguaggio di ispirazione manageriale (progetto come messa in valore, sfida tra città, ricerca della competitività territoriale, cultura, sostenibilità energetica)” e i riferimenti principali (il mercato in primis, p. 17). Un progetto urbano che muovendosi tra necessità di essere flessibile e al contempo strategico, diviene sostanzialmente riqualificazione dell’immagine più che indagine del contesto; si presenta come “fondamentalmente non tecnico […] mediatico, volto a produrre l’effetto città, comunicato solitamente attraverso uno slogan e attraverso il quale si rimanda a questioni politiche in maniera vaga al fine di non produrre tensioni, di non ostacolare l’azione dei promotori” (p. 23).
“Contro questo fresh conservatorism” – è l’asserzione di Di Campli – “andrebbe ricercata una pratica progettuale che resiste, operando un discostamento rispetto ai modi più abitudinari di pensare e trasformare lo spazio, che produce spazi non più lisci ma dotati di attrito” (p. 18), un progetto che si contraddistingue per la sua capacità di resistenza alle tendenze dominanti nella trasformazione dello spazio urbano e alle forme prevalenti del progetto urbanistico così come è andato configurandosi, un “progetto di crisi” finalizzato a determinare una “rottura nella consuetudine” e “capace di innescare l’azione” – secondo l’accezione di Tafuri (p. 20) – riconquistando una dimensione critica che sembra essere perduta.
Partendo da questi presupposti, il volume si sviluppa successivamente con una ricostruzione critica di questo processo di trasformazione del progetto urbano contemporaneo come è andato sviluppandosi nel corso degli anni ’90 e nel decennio successivo provando anche ad avanzare una possibile tassonomia (il progetto-rete, il trionfo dei concetti sfocati, il mito dello spazio pubblico) evidenziandone alcuni aspetti che hanno dominato la riflessione progettuale negli anni passati e nei quali sembra prevalere una ricerca esasperata di trasparenza che va intesa però come inseguimento di forme nuove di controllo, sorveglianza, separazione. Il Crystal Palace realizzato a Londra per l’Esposizione universale del 1851 rappresenta la metafora perfetta per rappresentare il senso acquisito dal progetto urbano contemporaneo, quale “nesso tra economie liberiste e modificazioni della spazio urbano” che produce l’emblema che nella sua struttura incarna i valori del nuovo ordine sociale in cui lo spazio è innanzitutto “ordinato ed addomesticato”, spettacolare e manifestazione “del sublime”, dove la trasparenza della struttura indica selezione e separazione, sorveglianza ed esclusione (p. 38 e p. 39), in cui come nella città contemporanea “l’atmosfera controllata e satura tende a rimuovere conflitti, pratiche e soggetti indesiderati, operando una semplificazione dello spazio” (p. 39).
Ebbene, è possibile mettere in discussione (in crisi) questa spazialità urbana? È possibile includere il conflitto nelle pratiche progettuali? È possibile cogliere gli aspetti concreti di processi che vanno prendendo forma nella città contemporanea?
La quarta ed ultima parte del volume, attraverso la lettura di alcune specifiche realtà urbane (il quartiere satellite di Meyrin a Ginevra, il quartiere lungo il fiume Magdalena a Barranquilla, il Villaggio Olimpico di Torino) e attraverso la disamina attenta dei progetti elaborati per la loro trasformazione tenta di ampliare la riflessione, da un lato sottolineando le particolarità di queste spazialità nelle nuove condizioni della città contemporanea, enfatizzando gli usi dello spazio, gli attori e le questioni, dall’altro spiegandone la natura di spazio “ruvido” ma inclusivo, la capacità di inventare lo spazio al di là delle forme imposte dal progetto, dove riesce a prevalere la cooperazione tra soggetti, saperi e discipline.
Qui le argomentazioni di Di Campli, agevolate dagli esempi concreti descritti in modo lineare ed immediato diventano più articolate, anche se più dense e complesse. Qui le problematiche del progetto contemporaneo e le conflittualità che si sviluppano all’interno dello spazio urbano diventano evidenti e stimolano il lettore a riflettere su altri spazi e su altre città per rilevarne parallelismi e analogie. Ma è anche vero che qui il discorso diventa anche complesso, più contorto e a volte fuorviante anche se resta sempre accattivante. Qui i richiami al cinema, alla letteratura, alla filosofia sono ricorrenti, poco ovvi e ricercati; le tracimazioni disciplinari sono continue provocando da un lato una curiosità morbosa e dall’altro una sorta smarrimento ed una sensazione di estromissione da una visione dell’architettura e dell’urbanistica che sembra voler essere elitaria ed esclusiva: proprio come se il libro, per meglio interpretare la natura dello spazio urbano contemporaneo, ne volesse assumere connotati e caratteristiche.
Ma di là di alcune difficoltà di lettura, restano molte suggestioni che vale la pena di cogliere e coltivare, sullo spazio pubblico, su alcune realtà urbane divenute simbolo della contemporaneità, sulla realtà disciplinare di questi ultimi anni, su alcuni approcci con i quali si è costruito – ma si insegna anche nelle nostre facoltà – il progetto, spunti per una riflessione che si spera diventi sempre più ampia e condivisa.