A sottolineare il carattere intimistico del libro, ciascun capitolo
riporta a sinistra della pagina iniziale uno spunto/controcanto in cui
l'autore, parlando di se stesso da fuori, suggerisce al lettore le
riflessioni estemporanee che lo hanno portato alla scelta del tema del
capitolo. Così ecco che subito prima del capitolo iniziale, Nicolin
"Riflette sulle promesse dell'urbanistica, per esempio, quella di
prefigurare una città più vivibile, disciplinata e a misura d'uomo". In
questo caso, il preambolo è un controcanto più che uno spunto. Il tema
del capitolo è infatti il ruolo che gli architetti dovrebbero giocare
nella situazione attuale in Italia. Anche se il termine "identità" non
compare nel testo, l'invito è a interpretare la tradizione moderna
italiana. Questa tradizione è definita come "grande eccezione nel
contesto europeo" ed è stata caratterizzata, secondo Nicolin, dalla
capacità di mantenere vivo l'interesse per le valenze rappresentative
dell'architettura di fronte all'irrompere del funzionalismo e delle
nuove tecniche costruttive. Questa capacità si fonderebbe sulla sapiente
manipolazione dei rivestimenti e sulla padronanza delle tecniche
costruttive, fattori che dovrebbero consentire al "buon attore della
scena architettonica italiana", come nelle parole dell'autore, di
inserire i propri progetti nel costruito delle città.
La sfida dell'architettura in Italia starebbe dunque, suggerisce
Nicolin, nel contrapporsi alle promesse totalizzanti dell'urbanistica
evocate nel preambolo. Come corollario, il luogo per eccellenza
dell'architettura italiana è individuato nella dimensione urbana, con la
conseguenza, lasciata tra le righe, che la buona pratica insediativa
nascerebbe dalla buona architettura, non viceversa. In assenza di una
verità da trovare, ma in presenza di una verità da cercare, i temi dei
capitoli si susseguono senza costruire una argomentazione per addizioni.
Per esempio, la logica conseguenza alla scala territoriale di quanto
suggerito nel primo capitolo si trova non nel secondo capitolo ma nel
terzo, che è una piccola elegia della città densa (di nuovo) italiana,
con riferimento diretto alla Milano dei primi anni duemila. Contro lo
sprawl, ma anche contro la media densità della città, che cresce per
gruppi di "condomini recintati", e contro i centri storici trasformati
in "parchi a tema", Nicolin decanta la bellezza, ancora riconoscibile,
della città italiana come stesse parlando di un corpo vivo attaccato da
una malattia. Coerentemente con l'assunto del libro, non viene fornita
una ricetta per difendere la città densa e, insieme ad essa, "quel tanto
di campagna ancora rimasta". Si capisce tuttavia che questa difesa
spetta agli architetti e deve partire dalla scala del singolo edificio,
visto come particella elementare ancorché difficilmente definibile della
città stessa. Se è così importante, il progetto del singolo edificio,
si leggono con interesse le parti che, attraverso gli spunti più
diversi, restituiscono le grandi passioni di Nicolin, estratte dalla
storia dell'architettura del novecento. Sono passioni raccontate per
frammenti e spesso caricate di nostalgia. Da Sigurd Lewerentz, a Luis
Barragan, a Louis Kahn, a Carlo Scarpa, ad Alvaro Siza e a Steven Holl,
Nicolin chiama a raccolta in un capitolo dedicato al "pensare per
immagini" i santi di un piccolo altare personale, attraverso cui
suggerisce una possibile genealogia di una modernità laterale, perché
priva dell'ambizione di insegnare alcunché ai propri abitanti, ma
piuttosto interessata a rapportarsi con le identità locali, intese in
un'accezione quasi esoterica.
Le parole dedicate in un altro capitolo alla chiesa di San Pietro
progettata da Sigurd Lewerentz nel sud della Svezia trasmettono una
profonda immedesimazione, che quasi trasforma l'edificio in un frammento
autobiografico dello stesso Nicolin. La capacità di trasmettere il
proprio coinvolgimento profondo in alcuni edifici segna anche l'ultimo
capitolo, che racconta una visita al cabanon di Le Corbusier a
Roquebrune, con i suoi odori, colori, rumori in un pomeriggio d'estate.
Il resoconto sensoriale si chiude con la visione del punto dove Le
Corbusier morì, con il mare sullo sfondo. L'immagine, che chiude anche
il libro, ha un sapore letterario, quasi da Morte a Venezia traslata
nella letteratura architettonica e dice molto della volontà che permea
il libro, di raccontare per suggestionare più che di dimostrare per
convincere.
Per attingere all'essenza del libro di Nicolin non è necessario, forse,
interrogarne ogni capitolo, ogni frammento. Il libro è come un mazzo di
carte da cui si può pescare a ogni mano. La precondizione, da prendere o
lasciare, è che il mazzo è stato accuratamente mischiato. Dal paesaggio
(il lavoro di Gilles Clement in particolare), al progetto della città
(la Berlino dell'IBA e Ungers), al recupero urbano (il Chiado a Lisbona
di Alvaro Siza), all'architettura di Kazuyo Sejima, ai musei
globalizzati di inizio millennio – per citarne alcuni – si trovano molti
dei temi che Nicolin ha intersecato nel corso di una lunga biografia
intellettuale e professionale, innanzitutto attraverso la direzione
della rivista Lotus International, da cui una parte minoritaria dei
capitoli proviene.
A mischiare ulteriormente le carte, Nicolin inserisce un terzo filone,
inframmezzando ai testi una serie di fotografie tratte da un proprio
viaggio nell'India meridionale. Emerge così un'ulteriore sfaccettatura
nella ricerca della verità annunciata dal titolo. È il tema della
percezione visiva di un luogo come antefatto al progetto, o come suo
commento, o come suo contraltare. Nicolin presenta le immagini come
pretesto per generare ulteriori, libere associazioni, oltre che come
suggestioni per un "abitare poetico, in luoghi più poveri del nostro".
Se quest'ultima funzione suona come anacronistica, gli scatti, dello
stesso Nicolin, riconducono al rapporto che l'autore ha intessuto con
Luigi Ghirri attraverso Lotus International. Proprio la copertina del
libro è ripresa da un Quaderno di Lotus dedicato a Ghirri. È la
fotografia di una carta geografica, dove i nomi dei luoghi si vedono al
rovescio; occorre attenzione per leggerli, come le pagine del libro.