Recensioni / «Pietre di pane» racconta chi resta in Calabria (senza criticare chi parte)

Si resta, viaggiando. Per sentire e far vivere il senso dei luoghi. La «restanza» non ha niente di meno dell’«erranza». Al contrario, perché complementari, vanno colte e narrate insieme. In «Pietre di pane», l’antropologo Vito Teti, ordinario di Etnologia presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università della Calabria, dove ha fondato e dirige il Centro di Antropologie del Mediterraneo, attraverso una serie di memorie, ambientate tra la Calabria e il Canada, racconta la complessità della «restanza». Si chiede se davvero sia «possibile pensare un viaggiare separatamente dall’esperienza del restare. E se quest’ultimo va accostato all’immobilità, alla scelta di non incontrare l'altro e di non fare i conti con la propria ombra, il proprio doppio». Di risposte, nel suo narrare, ne offre diverse e appassionate. Perché Teti, senza alcun senso di esasperato localismo, «questa terra l’ha adottata come patria dell'anima». Attraverso lesigenza di chi vuole vivere, pienamente, la propria storia, percorrendola tutta. Raccontandola al solo fine di non farla svuotare di senso. Seguendo i ricordi e i racconti di questi. Magari, anche, con la scoperta dei «doppi luoghi». Quelli che per lui sono stati di suo padre, in Canada. Creati dagli emigrati nella terra della fortuna. Dove, spinti dai sensi di colpa per essere partiti ma mai con il concreto desiderio di tornare, gli emigrati fanno rivivere, trasfigurandole, con vivacità e spiccato senso di appartenenza, le proprie tradizioni. «Agli uomini uomini senza donne, - aggiunge Teti - che hanno popolato le mille città del mondo, hanno dato senso le donne senza uomini che sono rimaste nei paesi e nelle campagne. Napuli, mu ti viju arzu de focu! Salutami ’su giovani ch’è jocu. Dinci si si ’nde vene o stade jocu». È un canto della emigrazione dell'800 da cui vien fuori il vivere l’attesa e il desiderio di vedere, per esempio: «Napoli bruciata dal fuoco, perché trattiene a sé il proprio amato».
Quella di Vito Teti, da sempre, è una vibrante e calorosa ricerca, un’analisi non fredda, di chi ama, fino in fondo, l’anima dei propri paesi. È uno scovare nella terra calpestata da uomini e donne che l’hanno vissuta, per portare a galla la verità. Senza mai, però, la falsa identità retorica di chi vuole compiacersi, per forza e comunque. Per raccontare le proprie bellezze, Teti spiega che bisogna partire dalle proprie bruttezze, accettandole perché fanno parte di noi. «L’essere rimasto, né atto di debolezza né di coraggio, è un dato di fatto, una condizione. Può diventare un modo di essere, una vocazione, se vissuto senza sudditanza, senza soggezione ma anche senza boria e compiacimento». Mette insieme racconti e storie scritte nel tempo. Che, in vario modo, fanno rivivere l’anima dentro i luoghi. Come quella che attraverso «Il turno di Angelino» fa sentire l’attaccamento al paese da cui, nonostante sia ormai spopolato, non si vuole andarvia. Mentre, in «Il cammino di Vallelonga» c’è l’andata alla fiera di Monserrato.
Quando il giovane Tito si recava da bambino con le donne di casa, percorrendo la campagna. Ora, non c’è più tutto questo. Eppure, nel 1994, in Ontario vicino Toronto a seimila chilometri di distanza da alcuni versi rivissuta. In un doppio luogo, quindi. È così che ci spiega che restare non è una scorciatoia, un atto di pigrizia. Restare è un’avventura, un atto di incoscienza e, forse, di prodezza, una fatica e un dolore. «I calabresi che restano - dice sorridendo - se la prendono sempre con qualcuno.
Si alzano al mattino e si chiedono chi gliel’ha fatto fare o, magari, che ci fanno qui. E quando non sanno con chi prendersela, se la prendono con se stessi». E allora, se è vero come è vero, che il compito degli intellettuali è quello di andare controtendenza, non per spirito di contrapposizione ma per suggerire un diverso futuro, bisogna partire, ricorda Teti, dalle parole del poeta calabrese, Franco Costabile: «Ecco, io e te, Meridione, dobbiamo parlarci una volta, ragionare davvero con calma, da soli, senza raccontarci fantasie sulle nostre contrade».