È il 17 giugno 2011 e sul palco di Villa Angeletti a Bologna, in
occasione dei 110 anni della Fiom, Roberto Benigni parla del lavoro,
della sua tutela e di quanto, se amato, rappresenti una delle migliori
forme di approssimazione alla felicità su questa terra. E cita Primo
Levi, le sue parole, per ribadire quanto il lavoro sia imprescindibile e
necessario per caratterizzare uno degli aspetti fondamentali della
dimensione umana. Un anno prima, il 10 gennaio 2010, dopo i tragici
fatti seguiti alla rivolta dei lavoratori extracomunitari negli aranceti
di Rosarno, e Adriano Sofri a guardare a Levi. Su «La Repubblica» esce
una sua poesia ispirata a Shemà, invitando il lettore a considerare dl
nuovo se questo e un uomo, se chi «vive tra un No e un No», chi
stramazza a un ciglio di strada, odora di kiwi e arance, conosce tre
lingue e non ne parla nessuna, che contende ai topi la sua cena, che ha
due ciabatte di scorta» faccia ancora parte della specie umana. Anche il
cielo brucia. Primo Levi e il giornalista di Andrea Rondini (Quodlibet,
Macerata, pagg. 192, euro 20,00) inizia così e non te lo aspetti. Anche
perché il titolo si presta a diverse interpretazioni, in quanto
contiene in sé almeno tre possibili linee di sviluppo: l’attività
giornalistica dello scrittore Levi, la ricezione delle sue riflessioni
sull’uomo e sulla Shoah nel mondo della carta stampata e, infine. la
loro estensione ad altri fatti ed eventi della contemporaneità. Qui
nessuna delle tre e assente, e Rondini — docente di Forme della
comunicazione letteraria all’Università di Macerata - le percorre tutte
con sicurezza, secondo quello che una volta si sarebbe chiamato il buon
metodo storico positivo, confezionando un lavoro che é una mappa
ricchissima di informazioni su Levi e sulla sua sempre più vasta
presenza nella stampa italiana. Il codice Levi, l’exemplum-Levi, ha
influenzato tanta parte del giornalismo di quest'ultimo quindicennio (e
molti, li cito a caso, sono i nomi che Rondini fa: da Gad Lemer a
Corrado Stajano a Barbara Spinelli, da Gianni Riotta a Paolo Mieli a
Gian Antonio Stella, accanto ad altre "firme" come quelle di Adriano
Prosperi, Stefano Rodotaà, Roberto Saviano, Gustavo Zagrebelsky). Se
prendiamo come termine di riferimento la pubblicazione a cura di Marco
Belpoliti dei due volumi delle Opere (1997), dopo di allora il richiamo
allo scrittore torinese cresce progressivamente d’intensità, finendo per
diventare quasi obbligato ogniqualvolta si cerca di riflettere sui
tanti e diversi modi in cui il potere (e la sua concentrazione) esercita
il proprio dominio sulla società contemporanea, oppure quando si
affronta il nesso strettissimo tra parola e responsabilità o, ancora,
quando ci s’interroga sull’indifferenza come forma di collaborazione al
male. Come Auschwitz é assurto a paradigma sovrastorico di ciò che non
deve più accadere, allo stesso modo le parole di Levi hanno acquistato
valore universale di riflessione sul potere e sul male. Tutte le volte
che il cielo brucia (il titolo del libro e la trasfigurazione di Così é
bruciato nello spazio, un articolo di Levi dedicato alla tragica
esplosione dello Shuttle nel gennaio 1986), ecco scattare il codice
Levi. Cosi, archiviate definitivamente le discussioni su Levi testimone,
testimone-scrittore, testimone-scrittore-chimico, e una volta
riconosciuto che slamo di fronte a uno scrittore di prima grandezza, il
passo successivo e stato quello di entrare dentro al suo laboratorio e
provare a scandagliare più da vicino i suoi libri di racconti, suoi
versi, la sua attività di saggista e di giornalista.
Ed é proprio l’indagine su quest’ultimo aspetto, il Levi «bravo maestro»
di giornalismo, di un giornalismo che svolge una funzione civile e vive
di una memoria lunga, la parte più innovativa del libro. Per questo,
non c'e abbaglio maggiore di chi consideri Levi un «reduce congelato nel
suo eterno presente». Un’impressione che provo Liliana Cavani durante
l’incontro che ebbe con lo scrittore qualche anno prima del1’uscita del
suo tanto discusso il portiere di notte (le sembrò che riuscisse a
parlare solo di quel periodo della sua vita, come se fosse sempre
rimasto la nonostante tutto»). Ma si era nei prlmi anni Settanta, bel
lontani ancora da una marcata presenza pubblica di Levi, che diventa
continua e crescente a partire dal febbraio 1975, quando inizia a
collaborare in forma stabile a «La Stampa». E sufficiente tornare a
leggere quegli articoli uno di seguito all’altro (da quello scritto
all’indomani dell’assassinio di Aldo Moro a quelli sul vino killer al
metanolo, su Chernobyl, sugli esperimenti per la predeterminazione del
sesso compiuti a Napoli dal ginecologo Raffaele Magli) per capire quanta
passione per il presente, in tutta la sua concretezza e pesantezza, ci
fosse in lui. E non mi riferisco soltanto al suo immediato e risoluto
schierarsi in prima fila, insieme a Carlo Casalegno, Norberto Bobbio e
Alessandro Galante Garrone, contro il terrorismo, ma anche ad altre e
decise prese di posizione: come la richiesta di dimissioni del ministro
della Difesa Vito Lattanzio per la fuga da Regina Coeli del nazista
Herbert Kappler, responsabile del massacro delle Fosse Ardeatine, oppure
la sua sofferta ma convinta decisione di farsi promotore di un appello,
che appare il 16 giugno 1982 su ala Repubblica», affinché il Governo
israeliano guidato da Menachem Begin ritiri immediatamente le truppe dal
Libano. L’appello, concepito da Levi insieme a Moshe Kahn, traduttore
di Paul Celan, venue firmato, tra gli altri, da Rita Levi-Montalcini,
Ugo Caffaz, David Meghnagi, Natalia e Carlo Ginzburg. E come documenta
Rondini, Levi tornerà anche in seguito a chiedere il ritiro di lsraele
dal Libano e dai territori occupati della Cisgiordania e di Gaza, ma al
tempo stesso si mostrerà sempre piuttosto diffidente nel confronti
dell’Olp dl Arafat, da lui considerato inaffidabile e in declino. E un
codice, quello di Levi, che non fa sconti a nessuno, e in primo luogo a
noi stessi. Per averne una prova, basti leggere poche righe di
un’intervista del settembre 1986 a proposito del genocidio cambogiano
perpetrato dai khmer rossl del generale Pol Pot: «È colpa nostra se ne
sappiamo cosi poco, è colpa nostra, perché avremmo potuto leggere
meglio, saperne di più. Leggere i pochi libri usciti sull'argomento. E
non lo abbiamo fatto per pigrizia mentale, per amore del quieto vivere».
Oppure queste parole tratte da una conversazione con Corrado Staiano:
«Accade sovente di ascoltare gente che dice di vergognarsi di essere
italiana. In realtà abbiamo buone ragioni di vergognarci: prima fra
tutte il non essere stati capaci di esprimere una classe politica che ci
rappresenti». Risalgono al maggio del 1975, ma sembrano appena
pronunciate.