Recensioni / Primo Levi avrebbe detto: il centauro diventa un santino

Strano destino quello di Primo Levi. Ignorato per lungo tempo quale testimone - Se questo è un uomo, uscito nel 1947, dovette attendere undici anni per essere ristampato dall’editore che l’aveva rifiutato -, ma anche come scrittore - solo dopo il 1982 cominciò a essere preso in considerazione dalla critica -, è rimasto sino a dieci anni fa quasi uno sconosciuto come collaboratore di giornali e quotidiani: per quanto i suoi lettori, anche eccellenti - giornalisti, saggisti, scrittori -, ricordassero almeno un articolo, tra quelli scritti per La Stampa, e lo citassero a memoria. Poi di colpo qualcosa è cambiato.
Non è successo contemporaneamente, ma in tempi successivi. Prima è stato il testimone, negli Anni Settanta, grazie all’edizione scolastica del suo primo libro, a diventare un punto di riferimento, quindi un decennio più tardi è la volta dello scrittore; ma solo dopo la morte la sua figura, quasi a tutto tondo, è assurta a quella di un santo laico, così che ipse dixit è diventato il destino di Primo Levi. Quando morì, Rossana Rossanda scrisse un articolo sul Manifesto: «L’impossibilità di essere acronistico». Ecco quello che gli è accaduto. Lo scrittore torinese è condannato a essere un nostro contemporaneo, come nota in un bel libro Andrea Rondini (Anche il cielo brucia. Primo Levi e il giornalismo, ed. Quodlibet), e capita che in tanti lo tirino per la giacchetta su mille argomenti.
Davvero un destino difficile, anche post mortem, per questo misconosciuto pensatore del XX secolo, certamente un classico della nostra letteratura, uomo dai molti mestieri, la cui complessità del dire è ancora tutta da esplorare. Se per Pasolini vige la domanda «cosa avrebbe detto?», per l’ex deportato vale invece l’affermazione: «Levi avrebbe detto». Il libro di Rondini mostra la stratificazione del suo pensiero e del suo dire su una serie di questioni tuttora aperte: la violenza degli Anni Settanta, lo statuto della scienza contemporanea, la crisi israelo-palestinese.
Per non ridurlo a una serie di stereotipi, per non fare di Levi, appunto, un santino, bisogna partire dalla tensione fortissima che attraversa tutta la sua opera di testimone e di scrittore: da un lato, la durezza implacabile della poesia con cui si apre Se questo è un uomo, quasi un’invettiva, e dall’altro la plasticità acuta, curiosa, intelligente di chi analizza con animo pacato aspetti complessi della natura umana. Se si rileggono, come ha fatto Rondini, gli scritti giornalistici, in particolare quelli dal 1975 al 1987, dedicati alla società italiana, sia sulla Stampa, sia in piccole pubblicazioni, si scopre una durezza di giudizio sulle classi dirigenti, la Dc, il terrorismo brigatista, e insieme l’attenzione agli aspetti meno scontati della vita quotidiana, sottoposti a un’indagine acuta e divertita, come mostra il suo libro di saggi extravaganti, L’altrui mestiere, che andrebbe letto come controcanto agli interventi più politici.
L’autore si sofferma sul difficile rapporto con Israele, relazione a più facce, ma comunque sempre coerente, e poi sul tema della violenza che attraversa l’Italia degli Anni Settanta, in cui Levi è senza dubbio, in modo molto onesto e coerente, uno specchio delle ambiguità dell’intero Paese. La sua posizione è anfibia, dice Rondini, mai ambigua: verso la scienza, di cui è un entusiasta adepto, seppur con molte perplessità, verso Israele, che è la patria degli ebrei scampati allo sterminio, ma anche un paese che ai suoi occhi si militarizza e tende a un fascismo strisciante, e soprattutto verso la «zona grigia», ovvero il rapporto con il potere pervasivo, dove non arriva mai, salvo in un passaggio, ad affermare che il Lager e la fabbrica sono parenti stretti.
Primo Levi ha fatto scuola come giornalista? Rondini dedica l’ultimo capitolo a quest’aspetto. Cita Gad Lerner, Adriano Sofri, Barbara Spinelli, Ezio Mauro, Gian Antonio Stella, Roberto Saviano per descrivere la funzione-Levi nel giornalismo contemporaneo. Vero. Per questi giornalisti, e non solo per loro, Levi è un modello. Tuttavia c’è anche un altro aspetto dello scrittore, il suo umorismo, la sua sottigliezza, la curiosità, l’inclinazione linguistica e persino enigmistica. È il Levi delle scorribande in territori limitrofi al proprio, il testimone e lo scrittore che non dimentica di essere un chimico anche quando parla di politica. Un centauro, un ibrido, e persino un umorista, come scrisse Massimo Mila in un memorabile articolo su queste pagine l’indomani della scomparsa.
Forse i veri discepoli di questo Primo Levi non vanno cercati nelle prime pagine dei quotidiani, quanto piuttosto in luoghi laterali. Due nomi: Stefano Bartezzaghi e Roberto Benigni, un saggista ed enigmista, e un comico con la vocazione letteraria del dicitore e del commentatore. Sono abbastanza sicuro che gli sarebbero piaciuti, anche se, come per tutti, l’ironico Levi, l’altra faccia del serioso testimone, avrebbe avuto qualcosa da suggerire al riguardo. Nessuno è perfetto.