MANTOVA - Dove va la cultura europea? A questa domanda cercarono di rispondere, nel 1946, intellettuali e filosofi come Lukács, Spender, Jaspers, Bernanos, Merleau-Ponty convocati a Ginevra per ragionare su che cosa restava dell'identità europea dopo le distruzioni del secondo conflitto e convinti della necessità di riannodare i fili di un dialogo comune. Il critico Gianfranco Contini, allora trentaquattrenne, raccontò per la «Fiera letteraria» gli esiti del «Rencontre» svizzero. Da lì, da quel resoconto ripubblicato agli inizi del 2012 da Quodlibet, in occasione del centenario della nascita di Contini (1912-90), ha preso spunto il confronto di ieri al Festivaletteratura, tra il teorico polacco della postmodernità Zygmunt Bauman e il critico Cesare Segre. Dove va, oggi, la cultura europea? è stata la domanda a cui hanno cercato di rispondere i due studiosi sollecitati dal coordinatore Daniele Giglioli che notava l'analogia tra l'Europa di allora, ridimensionata da una guerra che, per la prima volta, l'aveva costretta a prendere atto di non essere più il centro del mondo, e questo ultimo decennio in cui tutte le decisioni cruciali sono state prese altrove.
È toccato a Cesare Segre inquadrare storicamente il tema
sottolineando che «Contini scriveva in un dopoguerra che non era un
semplice ritorno alla pace, ma la fine di due dittature e la fine di
un'ispirazione criminale della politica. Il momento in cui si
organizzano i "Rencontres" è il momento in cui l'Europa liberata fa i
conti con le sue idee. Contini parte dall'assioma secondo cui la cultura
è parte importante della politica e la politica a sua volta è
riportabile a un pensiero filosofico. Italiano colto, di sinistra,
Contini era convinto che l'ordine delle idee nato dall'Illuminismo sia
ancora valido, che il nazismo e il fascismo fossero stati dei fenomeni
degenerativi da cui si poteva uscire. Questo spiega perché descrivendo
l'andamento del convegno, mostra un'imprevedibile ammirazione per Lukács
che allora in Italia era poco noto. Nonostante le sue idee fossero
lontane da quelle di Lukács, trovava nel suo pensiero strutture valide e
utili da discutere». E questo, per Segre, è il vero cuore del discorso:
«Allora si poteva abbozzare un sistema di saperi, collegarlo al sistema
politico e inserirlo in un sistema filosofico. Tutto ciò oggi non c'è
più».
La definizione di che cosa possa essere la cultura europea
apparentemente sfugge da tutte le parti. «Ho cercato su Google - ha
detto Bauman con il fiume ininterrotto di parole che ha messo a dura
prova il suo interprete - e sono usciti 943 milioni di pagine, anche se
la maggior parte delle risposte non c'entrava niente. Da un trattato in
cui si comparano varie ricerche su che cosa pensano gli europei di
questo concetto è emerso che il 39 per cento degli italiani associa la
cultura alla famiglia (più o meno la stessa cifra per i polacchi) mentre
nel resto del continente solo il 20 per cento. Il 57 per cento degli
europei ritiene che non esiste un'identità culturale comune, il 32 per
cento che non esiste una cultura europea distinta da quella occidentale
generale, mentre per il 76 per cento il valore più importante è la
diversità. Questo consente di rispondere alla domanda: l'Europa non va
verso un'unica cultura, sviluppa l'arte di vivere insieme nelle
differenze. Rispetto al '46 abbiamo fatto molta strada. La cultura oggi è
un processo, non più una struttura».