Recensioni / Aldo Rossi e gli Scritti scelti

“Non potrebbe esserci destino migliore per una teoria, che additare la via che conduce a una teorizzazione più generale in cui essa sopravvive come caso particolare”. Albert Einstein

Dopo L’architettura della città (2011) la riedizione degli Scritti scelti sull’architettura e la città 1956-72 a cura di Rosaldo Bonicalzi, conferma l’attenzione di Quodlibet Abitare per il lavoro di Aldo Rossi come teorico e scrittore. Al di là di essere ormai dei classici, il che potrebbe per esempio giustificare l’ipotesi di essere riprodotti senza sostanziali modifiche, le note introduttive alle riedizioni dei due testi
di Rossi non chiariscono se ci siano altre ragioni di tipo “operativo” dietro questa scelta editoriale.
Tuttavia come se qualcosa fosse rimasto inespresso, le due pubblicazioni sembrano intercettare un ritrovato interesse per la prima fase del lavoro dell’architetto italiano, come dimostrano il convegno dello scorso anno tenuto presso l’Università IUAV di Venezia, alcune pubblicazioni provenienti dall’east coast statunitense – che non ha mai smesso di studiare Aldo Rossi
– gli studi di Pier Vittorio Aureli e il recentissimo saggio dei Baukuh sulle promesse non mantenute de L’architettura della città. Perché questa volontà di riaprire il caso Aldo Rossi? Che cosa è sfuggito? Il colpevole è ancora in circolazione? C’è un reale interesse nell’operatività dei contenuti o questo è solo un modo per esorcizzare alcune parole, e persone, che in quarant’anni sono diventate una serie d’incubi per l’architettura, come la teoria, la forma della città, la scrittura, la Tendenza?
Attraverso le pagine degli Scritti scelti, Rossi ci offre 34 possibilità per formulare una nostra risposta provando, attraverso i contenuti dei testi, a ricostruire un pattern diverso di città, progetti urbani ed edifici che, a distanza di quarant’anni potrebbe finalmente prescindere dalle scelte dell’autore.
Se incrociamo il primo criterio della confutabilità di Karl Popper, che definisce una scienza e con l’idea di teoria di Aldo Rossi, come qualcosa di legato alla regolarità dei fenomeni particolari, ci rendiamo conto che forse questo è il libro più “aperto”, e per questo più interessante, della trilogia rossiana. I 34 saggi scritti tra il 1956 e il 1972 riabilitano l’influenza di un metodo scientifico che sembrava quasi portare a un vicolo cieco, imbrigliato nell’ipotesi di una scienza urbana così come descritta ne L’architettura della città, restituendo un’idea di progetto come ricerca capace di ridiscutere ogni volta i confini delle proprie premesse, partendo sempre da un nucleo di principi ben definiti, che per Rossi diventano la forma urbana e la sua architettura.
Sullo sfondo problematico della città di Milano che apre e chiude le 450 pagine del testo, la raccolta ruota intorno a due temi principali che sono il rapporto tra l’architetto e il suo tempo e la città come struttura spaziale. Partendo da questo nucleo Rossi elabora un arcipelago di temi, come il senso della tradizione in architettura, il Movimento Moderno, la morfologia urbana e la tipologia, il concetto di tendenza, che usano l’osservazione e la descrizione di precise esperienze come strumento di una costruzione logica e quanto più oggettiva della disciplina architettonica. Un richiamo al realismo dei fatti contro l’evasione della utopia.
Il volume è idealmente divisibile in tre parti in cui i temi dell’una sfumano nell’altra mantenendo una certa permanenza che richiama quella centralità di alcuni concetti di cui abbiamo già parlato. Nella prima parte che termina con il saggio sulla periferia del 1960, Rossi approfondisce il legame tra l’architettura e la società indagandolo nelle radici illuministe, nella seconda si concentra sulla teoria della città nell’ipotesi di chiarire i metodi della scienza urbana, nella terza che si apre con Architettura per i musei del 1966, l’oggetto della ricerca si sposta sul rapporto tra teoria e progettazione come principio di una scelta di tendenza.
Da un punto di vista metodologico, il libro di Rossi ci aiuta a comprendere il significato che il saggio assume nella formazione del concetto contemporaneo di teoria dell’architettura. Nel procedere per ipotesi e verifiche successive partendo da esperienze concrete, che siano architetti, città o architetture, la frammentarietà mirata di questa forma letteraria diventa più versatile e incisiva del trattato o dei manuali illuministi. L’analisi dell’opera di Antonelli, Loos, Le Corbusier, Boullée, o le ricerche sulle forme urbane di Milano, Vienna o Padova sono i mezzi di un paradigma architettonico, i cui principi non si trasmettono più attraverso le regole o i modelli, ma attraverso gli esempi. Il passaggio è radicale. Dagli anni sessanta in poi, questa struttura scientifica del testo come studio o ricerca diventa il modello incontrastato della maggior parte della pubblicistica operativa in architettura, almeno fino all’arrivo del taglio giornalistico introdotto da Rem Koolhaas.
La stessa contrapposizione tra l’esempio come trasmissione orizzontale e il modello e la regola come trasmissione verticale, ritorna a sua volta, nell’interpretazione della città per parti, dove la relazione orizzontale tra parti urbane sostituisce quella centripeta centro-periferia; permettendo in questo modo di leggere finalmente la città come un tutto. Le ragioni del progetto di una raccolta degli scritti sono da ricercare nella fase più matura tracciati dagli ultimi saggi del volume, quando nel 1975 rinuncia alla pubblicazione de La Città analoga per non sovrapporsi al libro di Vittorio Savi, preferendo forse un’operazione di diradamento a quella di un’ulteriore accumulazione. Infatti con il 1968, la nascita del Gruppo di Ricerca, la Triennale del 1973, la costituzione neo-razionalista della Tendenza, dopo i primi esperimenti del Piano di Pesaro, Rossi sembra presagire i rischi di un’eccessiva contaminazione tra i suoi testi, i suoi lavori e la fama crescente dopo il concorso per il cimitero di Modena. Al di fuori di se stesso e Rafael Moneo nessuno avverte l’inizio di un lento processo di consunzione, non consapevole, messo in atto da parte dei suoi stessi apostoli che stava creando epigoni in tutto il mondo.
Per questo decide nel 1975 di affidare agli Scritti scelti l’ultimo tentativo di portare avanti i contenuti più oggettivi e trasmissibili capaci di spiegare chiaramente la distinzione tra l’oggettività di una conoscenza dell’architettura e della città e le scelte personali dell’atto creativo. Per lo stesso motivo decide di ridurre all’indispensabile l’apparato figurativo e di lasciare fuori proprio la parte più autobiografica e legata alla progettazione – intesa nei suoi aspetti più compositivi e figurativi – di testi come Einige Meiner Entwüerfe (Alcuni dei miei progetti) o della città analoga, che nel frattempo era diventato il titolo provvisorio per il suo nuovo libro.
Quodlibet e Abitare hanno rispettato il progetto di Rossi senza avventurarsi in pericolose aggiunte postume che avrebbero reso commercialmente più appetibile il volume con il rischio di rovinare la tensione di tutto il resto.
Dopo la lettura è legittimo non condividerne i contenuti. Ma davanti alla permanenza di alcuni problemi spaziali della città contemporanea, alla crisi della scuola, alla marginalizzazione dell’architettura che sta ritornando nella dimensione di un muto professionalismo, anche se di qualità, la cultura architettonica non può evitare il confronto con la razionalità di una ricerca che ha saputo tenere insieme teoria e progettazione; senza cercare più l’alibi in un protagonista che, da amante di teatro qual era, aveva già preparato una doppia scena, l’una distinta dall’altra, come dimostra una lettura molto attenta degli Scritti scelti.